Mohammed Dahlan e Mahmoud Abbas

L’avvento al potere di George W. Bush, nel gennaio 2001, e quella del generale Ariel Sharon nel marzo 2001, in piena intifada, hanno segnato un cambiamento radicale della politica verso i palestinesi. Il periodo coincide con la presentazione della relazione del senatore George Mitchell per la condivisione della responsabilità nella continuazione del conflitto. Il Presidente Bush nominò un diplomatico scaltro, William Burns, per rappresentarlo in Medio Oriente. Con il direttore della Cia George Tenet, svilupparono un protocollo di sei punti per il cessate il fuoco. Sharon e Bush discussero il piano, il 26 giugno 2001, presso la Casa Bianca.

In realtà era semplice una messa in scena. La riapertura delle strade nei territori occupati era soggetta alla cessazione immediata e completa delle ostilità. In altre parole, la repressione nei territori occupati sarebbe stata revocata, se i palestinesi rinunciavano, senza condizioni, alla resistenza armata. Sharon e Bush s’accordarono su un discorso che stigmatizzava il presidente Yasser Arafat e lo incolpava per la continuazione delle ostilità: era il "terrorista" per eccellenza ed entrambi i paesi dovevano unirsi per sconfiggere il "terrorismo". Pertanto, Sharon decise di applicare d’ora in poi la strategia degli "omicidi mirati" dei leader politici palestinesi. Il primo a essere eliminato fu Abu Ali Mustafa, uno dei leader dell’Olp.

Così, quando vi furono gli attacchi dell’11 settembre 2001, questa retorica si basò senza problemi sulla "guerra al terrore". Quella mattina, infatti, i media trasmisero una richiesta di un gruppo palestinese e Israele chiuse tutte le sue missioni diplomatiche in tutto il mondo. Immagini di una dozzina di palestinesi che gridavano la loro gioia per i danni inflitti agli Stati Uniti, fecero il giro del mondo. In ogni caso, la responsabilità palestinese fu scartata durante la giornata e gli attentati furono attribuiti ad un piccolo gruppo stabilitosi n Afghanistan. Per chiudere questo capitolo, Yasser Arafat si recò in visita in un ospedale, per donare sangue per le vittime degli Stati Uniti. Ma l’occasione era troppo buona: i leader israeliani moltiplicarono le dichiarazioni di compassione per le vittime tracciando un parallelo tra quello che accadeva agli statunitensi con quello che subivano gli israeliani. Ariel Sharon descrisse l’Autorità palestinese come una "organizzazione di sostegno al terrorismo", mentre un portavoce della Casa Bianca disse che Israele aveva il diritto di difendersi. La confusione tra resistenza e terrorismo era totale.

Tel Aviv moltiplica i passaggi per isolare il "terrorista" Yasser Arafat. Tuttavia, i ministri degli esteri dell’Unione europea ribadivano che il presidente dell’Autorità palestinese era un partner per la pace, mentre Washington manteneva i contatti con il vecchio leader.

Riconoscendo l’impossibilità di una soluzione militare, Sharon previde un piano di ridisegno della Palestina che assicurasse la continuità territoriale d’Israele e delle sue colonie e, invece, dividesse i territori palestinesi in due aree distinte. Con discrezione, iniziò le opere più importanti, compresa la costruzione di un muro che segna la nuova frontiera. Il piano complessivo fu rivelato più tardi. Il Generale Sharon si accontentava, in un primo momento, di annunciare la creazione di "zone cuscinetto" ritagliate dai Territori Occupati. Allo stesso tempo, un’associazione di ex ufficiali condusse una campagna di propaganda per la separazione unilaterale degli ebrei degli arabi. Ci si muoveva verso una forma di apartheid in cui Gaza e la Cisgiordania avranno il ruolo di bantustan.

Per spostare le linee sul terreno, il gabinetto israeliano lanciò l’Operazione ’Muro Difensivo’ (a volte tradotto come ’Baluardo’), il cui titolo sarà compreso solo in seguito. Tsahal rase al suolo una parte di Jenin e assediò la Chiesa della Natività a Betlemme, dove la Chiesa cattolica aveva concesso asilo a dei resistenti palestinesi. Il Generale Sharon definì Yasser Arafat "il nemico di Israele", che molti interpretarono come il segnale della sua imminente eliminazione. In un solenne discorso televisivo, il primo ministro israeliano dichiarò: "Lo Stato di Israele è in guerra (...) Una guerra senza compromessi contro il terrorismo (...) attività coordinata e guidata da Yasser Arafat." Per cinque mesi, le forze israeliane assediarono il palazzo presidenziale a Ramallah e dichiararono la città "zona militare chiusa". Il vecchio leader era confinato tra quattro mura, mentre l’acqua e l’elettricità vennero tagliate. Sharon gli offrì di partire, "senza biglietto di ritorno." Dopo l’assedio, tolto sotto la pressione internazionale, Arafat rimase agli arresti domiciliari tra le rovine del palazzo presidenziale.

Il principe Abdullah dell’Arabia Saudita previde un piano di pace ragionevole, tenendo conto degli interessi delle varie parti interessate. Lo presentò al Vertice della Lega araba a Beirut, in assenza di Yasser Arafat prigioniero a Ramallah, e ottenne l’appoggio degli Stati arabi. George Bush, che svolgeva da una parte il ruolo dell’entusiasta, con William Burns e Donald Rumsfeld, e dall’altra, del compassato con Anthony Zini e Colin Powell, sabotò il piano di pace arabo. Il 24 giugno 2002, si pronunciò in favore della creazione di uno Stato palestinese, ma pose come base necessaria la partenza volontaria del Presidente Arafat e la creazione di una nuova leadership palestinese, che non fosse "compromessa con il terrorismo."

La logica che porterà alla morte del vecchio leader è in marcia. Niente potè fermarla.

Washington sollecita invano dai suoi partner del Quartetto (ONU, UE, Russia) il loro supporto per la partenza di Arafat. A seguito di un attentato che provocò 7 morti a Tel Aviv, Sharon ordinò di riprendersi la sede del palazzo presidenziale. Tsahal distrusse la maggior parte del complesso governativo e i dirigenti israeliani non fecero segreto di volerla finire con loro "nemico" Arafat. Tutta la popolazione palestinese manifestò il suo supporto al vecchio leader, mentre la risoluzione 1435 del Consiglio di sicurezza intimava a Israele di cessare immediatamente questa operazione. Tsahal lasciò il campo.

Elezioni politiche anticipate furono indette in Israele. Il loro risultato rafforzò il potere di Ariel Sharon. Componendo il suo nuovo governo, dichiarò senza mezzi termini che voleva "finire la guerra contro il terrorismo, eliminare la leadership del terrorismo e creare le condizioni per l’emergere di una nuova direzione con la quale fosse possibile raggiungere una vera pace”.

Russia e Francia invitarono Arafat a fare concessioni per evitare il peggio. Il vecchio leader s’impegnò a creare la carica di Primo Ministro e ad affidarla a una personalità che fosse accettata da Tel Aviv e Washington, e potesse discutere con loro per rompere l’isolamento. I due uomini avevano tutte le difficoltà nel concordare la formazione del governo. Abbas voleva assegnare i rapporti con le organizzazioni militari della Resistenza al generale Mohammed Dahlan, mentre Arafat no. In definitiva, decisero di nominare Dahlan a capo della polizia.

Tuttavia, la formazione di questo governo non cambiò nulla. La decisione di uccidere Arafat fu presa. Era anche il programma ufficiale del nuovo gabinetto Sharon. L’ambasciatore William Burns e il Primo Ministro Ariel Sharon organizzarono un incontro segreto con il Primo Ministro palestinese Mahmoud Abbas e il futuro ministro dell’Interno Mohammed Dahlan. I congiurati svilupparono i dettagli del delitto. Entrambi decisero di uccidere il vecchio leader e il leader di Hamas, in modo che non potesse prenderne il posto.

Il Quartetto accolse con favore la nomina del nuovo governo palestinese con la pubblicazione della "tabella di marcia". Il gabinetto Sharon approvò pubblicamente questo approccio, ma trasmise segretamente alla Casa Bianca una nota, spiegando le 14 riserve che svuotavano la "roadmap" del suo significato.

Per sei mesi, Mahmoud Abbas partecipò a molti incontri internazionali per attuare le raccomandazioni del Quartetto, e fu ricevuto con tutti gli onori alla Casa Bianca. Tuttavia, presto divenne evidente che l’assunzione di tali impegni andava al di là delle sue competenze. Avrebbe promesso al vertice di Aqaba, la fine della resistenza armata senza alcuna condizione.

In ogni caso, Jacques Chirac fu informato del complotto. Avvertì il suo omologo russo Vladimir Putin. La Francia e la Russia proposero al presidente Arafat di evacuare immediatamente da Ramallah e di concedergli asilo politico nel paese di sua scelta. Il vecchio leader rifiutò l’offerta. Sapeva che se avesse lasciato la Palestina, non vi sarebbe mai ritornato.

Per garantire la sua sicurezza, Arafat creò la carica di Consigliere della Sicurezza Nazionale che sconfinava nelle prerogative di Abbas e Dahlan. L’affidò a Jibril Rajoub. La tensione raggiunse il suo culmine. Abbas si dimise, portando con sé Dahlan.

Fu in questo periodo che Muhammad Dahlan inviò una lettera al ministro della Difesa israeliano Shaul Mofaz, un documento la cui copia è stata trovata negli archivi privati di Dahlan durante la sua fuga. Scrisse: "Siate certi che i giorni di Yasser Arafat sono contati. Ma lasciate che l’abbattiamo a modo nostro, non vostro (...) Manterrò le promesse che ho fatto al presidente Bush".

Yasser Arafat nominò primo ministro Ahmed Qurei. Il governo Sharon rispose, adottando il principio della cacciata del presidente dell’Autorità palestinese fuori dalla Palestina. I Palestinesi manifestarono di nuovo per il loro leader. La Siria chiese al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di vietare l’espulsione del presidente Arafat, ma gli Stati Uniti posero il veto alla proposta di risoluzione. Per ritorsione, aerei israeliani sorvolarono il palazzo presidenziale siriano e bombardarono un ex campo palestinese vicino a Damasco.

Nel marzo 2004, Tsahal assassinò lo sceicco Ahmed Yassin, leader spirituale di Hamas. Questo omicidio non può essere inteso se non come il desiderio di decapitare il ramo musulmano della resistenza, in modo che potesse prendere il controllo quando il anche ramo laico fosse stato decapitato. Alle Nazioni Unite, Washington pose il veto ad una risoluzione di condanna del delitto. Continuando lo slancio, Tsahal assassinò il mese successivo Abdel Aziz al-Rantissi, il capo civile di Hamas.

Ariel Sharon andò a Washington e svelò il nuovo piano di partizione della Palestina, che attua da tre anni. Insisteva sul fatto che la continuità territoriale richiede lo smantellamento degli insediamenti israeliani troppo avanzati e indifendibili, e che le truppe israeliane si ritireranno dai territori destinati ai palestinesi. Ammise la proposta di separazione delle popolazioni in entità etnicamente omogenee e l’intero percorso del muro di separazione. Il presidente Bush gli diede per iscritto il via libera da Washington e aggiunse che, date le "nuove realtà sul terreno", il principio del ritorno ai confini stabiliti dalla comunità internazionale ora è "irrealistico". Il fatto compiuto primeggia sul diritto.

Il Consiglio di Sicurezza si rifiutò di condannare l’annessione del territorio dietro il muro di separazione, e l’Assemblea Generale si appellò alla Corte dell’Aja affinché la formalizzasse.

A Ramallah, Yasser Arafat temeva che il ministro degli Interni del governo, Abu Ala, avesse aderito alla cospirazione. Decise di dimetterlo. Ahmed Qurei, che si sentiva sfiduciato, si dimise. Arafat alla fine rinunciò. Abu Ala e il suo team rimasero, compresi i traditori.

Errore fatale.

Il 21 ottobre 2004, Yasser Arafat ebbe dei conati di vomito. I medici credettero prima a una semplice influenza. Le sue condizioni furono in rapido peggioramento e il suo sistema immunitario venne gravemente indebolito. Su proposta del suo omologo francese, Jacques Chirac, accettò di lasciare la Palestina per curarsi. Sapeva che la sua vita era in pericolo e che, anche se sopravviveva, non sarebbe mai ritornato nella sua terra. Fu preso in carico da un ospedale militare specializzato. I medici non riuscirono a isolare il veleno, tanto più che i suoi assassini gli avevano inoculato il retrovirus dell’AIDS, per rendere illeggibili gli esami. Cadde in coma. La sua morte fu annunciata l’11 Novembre 2004 alle ore 3:30, ora di Parigi. L’Elysee si assicurò che il certificato di morte dicesse che il presidente dell’Autorità palestinese era nato a Gerusalemme.

Il gabinetto di Sharon si oppose fermamente alla sepoltura a Gerusalemme, il funerale internazionale si tenne al Cairo e la sepoltura a Ramallah. I collaboratori che cospirarono con l’occupante per ucciderlo conquistarono il potere immediatamente.

Traduzione di Alessandro Lattanzio