Gli elettori statunitensi hanno utilizzato le elezioni di medio-termine per punire la politica condotta dall’amministrazione Bush in Iraq. Questa sconfessione non è basata sulla scelta della guerra in Iraq, la quale era stata approvata massicciamente sia da parte democratica che da parte repubblicana, ed è servita da collante per il “bipartitismo rinnovato”. E nemmeno è fondata sul costo in vite umane del popolo iracheno. La stampa statunitense ha passato sotto silenzio gli studi demografici che stimano attorno ai 650 000 il numero dei morti civili dall’inizio dell’invasione anglo-sassone [1]. La punizione è invece basato esclusivamente sui costi di quest’operazione, finanziari e umani, per gli Stati Uniti. Anche se i media dominanti minimizzano i fatti e si astengono dal fornire un panorama completo della situazione, alcune testimonianze di veterani sono circolate. Soprattutto, gli elettori sono indirettamente informati sull’ampiezza del disastro della rivolta degli ufficiali, la quale non ha nulla a che vedere con un’appello per la pace.

Le operazioni della resistenza irachena guadagnano in numero e precisione. Una nuova fase dei combattimenti si profila con l’abbandono di intere province nelle mani degli insorti, così come con le disfatte strategiche senza precedenti riportate dalla Coalizione. Tutto ciò sarebbe premonitore di una imminente disfatta “alla vietnamita”?

Praticamente dappertutto in Iraq, un logorio costante e onnipresente è esercitato contro le forze della Coalizione.; in nessun luogo l’occupante può sentirsi al sicuro. Il ritmo quotidiano degli attacchi è attualmente al livello più alto, 90, secondo le stime più prudenti, con un totale ufficiale di 103 soldati statunitensi uccisi nell’ Ottobre 2006, da paragonarsi con la cifra più alta di 134 nel novembre del 2004. Una volta aggiunti i morti che non rientrano nelle statistiche ufficiali (soldati stranieri ingaggiati nella speranza di ottenere la nazionalità statunitense, mercenari e altri “contraenti civili”) ci avviciniamo alla media di 7 « GI’s » uccisi ogni giorno, come durante il periodo più cruento della guerra in Vietnam, nel 1968.

La parte emersa dell’iceberg, che ritroviamo nei media dominanti, sapendo gli attentati sui civili attribuibili principalmente agli squadroni della morte o a dei regolamenti di conti mafiosi, non rappresentano che il 30% del totale degli attacchi secondo i rapporti di riferimento, compreso quelli del Pentagono.
In alcune province, quali al-Anbar, in cui la Resistenza occupa la maggior parte del territorio, alcune squadre di cecchini reclutate apertamente e generosamente ricompensate, mirano su soggetti isolati, al di fuori dei combattimenti reali, mentre le imboscate con esplosivi continuano a falciare ogni giorno veicoli militari sulle strade.

Lo “Stato parallelo” ha preso il sopravvento in almeno quattro province; le truppe statunitensi e l’esercito dei collaborazionisti collaborazione non possono far altro che constatare che non ne hanno conquistato né i cuori né lo spirito. Sono in territorio nemico [2].

Altrove si assiste, quale segno manifesto dell’evoluzione della situazione militare, a una vera e propria guerra di posizioni nella quale sono mirati precisi bersagli strategici in seno alle forze di occupazione o di collaborazione. La periferia di Bagdad è il teatro dei combattimenti con armi leggere che oppongono truppe della Coalizione o collaboratori esterni a dei battaglioni di resistenti; combattimenti, questi, che spesso danno luogo a bilanci ufficiali contradditori [3]. Grazie ad alcune informazioni e coordinate fornite da elementi della Resistenza infiltrati nel cuore della macchina dell’occupazione, alcuni obiettivi sensibili dell’arsenale di occupazione sono oggetto di attacchi massicci e molto precisi.

Così, la sera del 10 ottobre del 2006, un’importante base americana ubicata nei pressi del distretto di Dora a sud di Bagdad, Forward Operating Base Falcon, è stata attaccata con razzi e mortai. Ora, questa base dava alloggio non solo a un importante contingente di truppe impegnate in seno all’operazione Together Forward, ma anche al più importante deposito di munizioni della Coalizione all’interno del paese. Bombe, granate, ogive di proiettili e munizioni da arma leggera sono esplose e hanno bruciato per tutta la notte, illuminando il cielo di Bagdad e provocando un fracasso infernale percepito ben oltre i confini della città. Molte televisioni hanno ripreso l’accaduto, così come alcuni militari videoamatori. E’ altresì piuttosto palese della situazione, il sentire un giornalista della BBC informare i telespettatori che ufficialmente l’incendio era sottocontrollo., allorché, nello stesso momento, si vedevano nuove esplosioni sullo schermo! Quanto alla stampa araba, nei giorni successivi, ci rivela che l’inchiesta seguiva la pista dei traduttori iracheni al servizio della Coalizione che avrebbero trasmesso le coordinate degli stock di munizioni alla Resistenza al fine di facilitarle il bombardamento [4], ma, pure, che dei colpi sparati dalla Resistenza avevano impedito alla forza di Coalizione di arginare il disastro. L’ampiezza delle esplosioni non lascia dubbi sui danni materiali e umani. Il giorno dopo i comunicati ufficiali parlavano però solo di qualche persona ferita, ma nessun decesso. Al contrario, i comunicati della Resistenza affermavano di aver contato nove aerei da trasporto che evacuavano le vittime in numero di 300. In tutti i casi, è certo che questa vittoria strategica della Resistenza è stata un duro colpo alle finanze degli occupanti (forse nell’ordine del miliardo di dollari, secondo il ministero degli Interni iracheno) e al morale delle sue truppe.

La reazione delle istituzioni americane a questi recenti rivolgimenti strategici, non si è fatta attendere e in questi ultimi giorni hanno avuto luogo nuove proteste interne. Lunedì 6 novembre 2006, ossia il giorno precedente le elezioni parlamentari di medio-termine, quattro giornali militari [5] letti da molti dei soldati, chiedevano le dimissioni del segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld.

Da parte dei democratici, non c’è stata esitazione nell’operare una brusca inversione di tendenza. Hillary Clinton propone il ritiro delle truppe, con una scadenza ormai fissa, non prima, però, di aver promesso di far meglio di Bush, inviando più truppe nei combattimenti.

Secondo la logica che abbiamo seguito, due anni or sono [6], le forze di occupazione si battono contro una frangia della popolazione sempre più numerosa, in quanto sostiene la Resistenza a mano a mano che subisce cieche rappresaglie. Tutto questo permette ad un “contro-Stato” di svilupparsi progressivamente, incitando la Resistenza ad attivare la fase III della teoria della guerriglia maoista, cioè la guerra di posizioni. Questi sviluppi erano stati abbondantemente anticipati, anche all’interno del governo statunitense. Effettivamente alcuni documenti declassificati di recente, mostrano che alcune simulazioni intraprese nel 1999, stimavano che i soldati necessari per controllare il paese avrebbero dovuto essere 400.000, pena il rischio di caos! [7].

Fino a che punto può tener duro la Coalizione che occupa l’Iraq? Un sollecito e metodico ritiro dal paese lascerebbe allo scoperto un governo fantoccio molto vulnerabile e renderebbe inutili le enormi spese sostenute fino ad oggi al fine di installare delle basi militari permanenti e di assicurarsi la seconda riserva petrolifera del mondo.

Questa situazione è ben lontana dal giungere al termine, le dimissioni del segretario alla Difesa Donald Rumsfeld segna una tappa in più, questa volta irreversibile, in questo pantano. Contrariamente a quanto si possa credere, il conflitto tra il signor Rumsfeld e il suo stato maggiore non era basato sul mantenimento o il ritiro delle truppe, ma sui mezzi messi all’opera. Il segretario alla Difesa, ex patron di multinazionali, è stato l’ultima persona ragionevole a preoccuparsi dell’inflazione del bilancio militare. Il suo successore non potrà che cedere alle pressioni del personale della Difesa e dell’opinione pubblica, al fine di dare carta bianca alle Forze armate. In definitiva, l’appello ad un nuovo bipartitismo, vale a dire ad una gestione d’unione nazionale, è manifesta della volontà della classe dirigente di perseguire unita nell’errore. Dovremmo vedere riprodotta la stessa strategia della fine dell’avventura vietnamita: un complesso milatare-industriale che reclama di voler proseguire, un dipartimento di Stato che tenta di trasferire il fardello alle forze alleate (come già fa con successo in Afghanistan [8], e d’« irachizzare» il conflitto, e un dipartimento del Tesoro che cerca in tutti i modi di evitare il fallimento. Una fuga in avanti di cui l’uscita tragica è certa.

Traduzione per Comedonchisciotte a cura di Gabriel Tibaldi.

[1« Mortality after the 2003 invasion of Iraq : a cross-sectional cluster sample survey » par Gilbert Burnham, Riyadh Lafta, Shannon Doocy et Les Roberts, The Lancet, 11 octobre 2006.

[2Vedi ad esempio « Les États-Unis abandonnent Falloujah aux insurgés », Réseau Voltaire, 6 septembre 2006.

[3Vedi ad esempio « Iraqi police kill 53 ’Al-Qaeda’ militants » et « Confusion over deadly Baghdad clash », AFP, 5 novembre 2005

[4« Ammo Dump Explosions Investigation », Roads to Iraq, 5 novembre 2006.

[5Sono: Army Times, Navy Times, Air Force Times e Marine Corps Times.

[6edi ad esempio gli articoli « Samarra ville martyre » , di Arthur Lepic, 6 ottobre 2004, « L’économie de la guerre en Iraq->http://www.voltairenet.org/article15596.html] », 24 novembre 2004, oppure l’edizione speciale di gennaio 2005 « Janvier en Iraq ».

[7« 1999 war games foresaw problems in Iraq », di John Heilprin, Associated Press, 5 novembre 2006.