Nel corso del dibattito che ha preceduto il referendum sulla costituzione europea in Francia, alcuni avversari del testo avevano deplorato il fatto che il trattato, nel suo articolo I-41, legasse esplicitamente la difesa europea alla NATO, e alcuni responsabili politici avevano espresso il timore di vedere l’Europa dipendere indefinitamente dall’armata statunitense. Le reticenze espresse non si sono poi però trasformate in argomenti di discussione della campagna referendaria, e si è persa così una delle rare occasioni per contestare la sopravvivenza dell’Alleanza atlantica dopo la fine della Guerra fredda. A partire da questo momento, l’Alleanza atlantica ha perso a priori ogni ragion d’essere; ma in effetti non smette di crescere e il problema del suo scioglimento non sembra essere un argomento di dibattito accettabile sul piano mediatico. Al tempo stesso, gl’incensatori dell’alleanza tra Europa e Stati Uniti continuano a prodigarsi senza sosta per difendere una struttura di cui hanno ridefinito il ruolo.

Un’alleanza orfana di nemici

Si attribuisce a Lord Ismay, primo segretario generale della NATO, questo giudizio sul ruolo dell’Organizzazione del trattato del Nord Atlantico: "Tenere gli americani dentro, i russi fuori e i tedeschi sotto". [1] La frase illustra bene il duplice ruolo dell’alleanza militare, che durante la guerra fredda si presentava unicamente come uno strumento per garantire la sicurezza dell’Europa occidentale contro la minaccia sovietica, ma era in realtà anche lo strumento per consentire agli Stati Uniti di esercitare il loro peso politico sui vassalli europei. L’ingerenza politica statunitense si lasciava raramente fermare da scrupoli e qualche volta arrivava all’uso di metodi terroristici [2].

Il 1° luglio 1991, lo scioglimento volontario del Patto di Varsavia, la controparte della NATO nel blocco dei paesi dell’est, mise fine alla ragion d’essere ufficiale dell’Organizzazione del trattato del nord Atlantico, che però oggi non solo esiste ancora, ma è anzi in fase di ampliamento: i suoi membri, 12 al momento della creazione il 4 aprile 1949 [3] e 16 al momento dello scioglimento del patto di Varsavia [4], sono oramai diventati 26. I nuovi arrivati facevano in passato parte del Patto di Varsavia, e alcuni sono addirittura delle ex repubbliche sovietiche [5]. Alla cifra indicata si potrebbe probabilmente aggiungere una parte dei 20 membri del Partenariato per la Pace, una struttura di associazione tra NATO e alcuni Stati che serve talvolta da anticamera per l’adesione.

Ma visto che il mondo bipolare non esiste più, come spiegare e giustificare agli occhi della gente questo allargamento infinito? Come fare accettare la sopravvivenza di un’organizzazione militare che permette agli Stati Uniti di esercitare il loro peso militare in Europa? In effetti la NATO non può più additare un nemico della taglia dell’Unione Sovietica di un tempo per far accettare lo spiegamento delle basi e le ingerenze politiche; i dirigenti filoatlantici hanno dunque dovuto reinventare una nuova serie di valori che facesse sembrare indispensabile la struttura.

Stabilizzare l’Europa in nome del "Bene"

I conflitti che hanno seguito gli sconvolgimenti in Iugoslavia sono stati per l’Alleanza atlantica l’occasione di agire in un teatro di operazioni europeo; dapprima dispiegando nell’Adriatico una flotta che controllasse l’embargo sulle armi ai belligeranti durante l’operazione Sharp Gard, poi, dal 1995, creando una forza di pace in Bosnia-Erzegovina.

Nel corso delle operazioni abbiamo visto nascere la tesi secondo cui l’Europa sarebbe stata incapace di assicurare la pace sul proprio territorio senza l’aiuto degli Stati Uniti, aiuto offerto nel quadro della NATO. Gli argomenti usati erano accompagnati da un discorso sempre più articolato sulla nuova importanza delle azioni militari umanitarie, in base al quale la frammentazione dell’ex blocco sovietico aveva alterato gli antichi equilibri e aveva condotto a nuovi conflitti che mettevano spesso gli uni contro gli altri i popoli di uno stesso Stato. La fine del bipolarismo rendeva inoltre possibile intervenire in alcuni paesi in cui i gruppi al potere andavano contro i propri cittadini. Abbiamo così visto nascere i concetti di Stato in disfacimento ("failed state") e di "diritto d’ingerenza": quando uno Stato era diventato incapace di proteggere i suoi cittadini, o ne organizzava lui stesso lo sterminio, la comunità internazionale aveva il dovere d’intervenire e rimuovere in qualche modo dalle loro funzioni le autorità colpevoli o incompetenti.

Furono questi gli argomenti usati per giustificare il bombardamento della Serbia da parte della NATO nel 1999: sfruttando una propaganda che indicava nei nazionalisti serbi e nel presidente Slobodan Milosevic i soli responsabili del massacro etnico, l’Alleanza atlantica scatenò una "guerra umanitaria" con il dichiarato obiettivo di fermare quello che veniva presentato come un "genocidio". La NATO lanciò l’attacco senza modificare il proprio statuto, ma agendo in questa maniera cambiò la sua natura. Sulla carta, l’organizzazione non è in effetti altro che un’alleanza difensiva incaricata della sicurezza di ciascuno dei propri membri; attaccando la Serbia, si trasformava de facto in una coalizione aggressiva che si arrogava il diritto di aggredire uno Stato sovrano senza il previo accordo del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Manipolando gli argomenti morali, portando avanti un discorso in cui si sottolineava la lotta delle democrazie occidentali contro la dittatura, e ricorrendo alla retorica del "diritto d’ingerenza", la NATO riuscì tuttavia a far passare 78 giorni di bombardamenti illegali come una vittoria della giustizia sulla barbarie. Accusando coloro che si opponevano al conflitto di essere partigiani di una " grande Serbia" o di essere complici della barbarie, i sostenitori filoatlantici riuscirono a mettere il bavaglio a tutti quelli che li contestavano e a distrarre i cittadini europei dal vero problema posto dalla trasformazione dell’organizzazione. Anche se furono pochi gl’incensatori dell’alleanza che osarono spingersi così lontano, la NATO fu nel suo insieme presentata come un’alleanza militare al servizio del "bene" e della stabilità in Europa. Lo stesso argomento è stato usato per giustificare le adesioni dei paesi dell’Europa orientale.

Il presidente serbo Boris Tadic in visita al quartier generale della NATO, 19 luglio 2006

Ancora oggi, ogni ampliamento della NATO viene presentato come un passo positivo in nome della democrazia, e ogni nuova adesione è l’occasione per i dirigenti filoatlantici di ricordare l’attaccamento ai "valori comuni" euro-atlantici e di presentare l’adesione del nuovo Stato come una garanzia di stabilizzazione della democrazia nel paese. Esempio illuminante di questa logica, la Serbia, vittima di bombardamenti illegali e di crimini di guerra commessi dall’Alleanza, vede oramai il suo status democratico giudicato sul metro dei suoi rapporti con la NATO. Dopo essere stata aggredita dall’Alleanza atlantica, oggi la Serbia chiede di poter aderire al Partenariato per la Pace, e la mossa viene considerata una prova dell’evoluzione democratica del paese [6].

Il tema della pacificazione e stabilizzazione dell’Europa è però almeno in parte passato in secondo piano dopo l’avvio della "guerra al terrorismo". L’11 settembre 2001 ha aperto la strada a una nuova giustificazione dell’esistenza della NATO, premessa di un ulteriore ampliamento delle sue competenze.

La NATO di fronte alle "nuove minacce"

Gli attentati dell’11 settembre 2001 a New York e Washington hanno offerto una nuova risposta agli interrogativi sull’utilità della NATO. In effetti, subito dopo gli attentati e sull’onda dell’emozione suscitata dalle immagini delle torre gemelle che crollavano, i paesi dell’alleanza atlantica si sono detti pronti ad intervenire in appoggio dell’armata statunitense, invocando a giustificazione l’articolo 5 del trattato che stipula: "un attacco armato contro uno o più paesi alleati, in Europa o in nord America, verrà considerato un attacco contro tutti gli alleati". È in virtù dell’applicazione di questo trattato che le forze della NATO, dopo le dichiarazioni di Washington sul coinvolgimento del governo afgano negli attentati, hanno partecipato all’invasione dell’Afganistan e al rovesciamento del regime, sostituito da quello di Hamid Karzaï.

L’attacco è stato il primo condotto al di fuori dell’Europa. Dopo l’aggressione alla Serbia, che aveva creato un precedente giuridico sulla possibilità della NATO di attaccare un paese considerato una minaccia e di agire senza l’accordo dell’ONU, l’aggressione all’Afganistan ha allargato ancora di più il campo di azione dell’Alleanza atlantica che non limita più i suoi interventi all’Europa e al nord America. Ma, cosa ancora più importante, ha fatto entrare a pieno titolo l’Alleanza nella "guerra al terrorismo", presentata addirittura come la nuova ragione d’essere dell’organizzazione. L’ex ambasciatore americano presso la NATO, R. Nicholas Burns , se ne è in particolare rallegrato in una sua intervista pubblicata dall’International Herald Tribune nell’ottobre 2004 [7].

Il segretario generale della NATO Jaap de Hoop Scheffer e il presidente afgano Hamid Karzaï, 20 luglio 2006.

L’Alleanza ha adottato la retorica di Bush sul terrorismo, che passa dall’essere un metodo usato da alcuni gruppi armati o Stati, a essere un avversario a pieno titolo, assimilato all’estremismo islamico. Partendo dal principio che ogni paese dell’alleanza poteva oramai essere vittima del terrorismo e che la risposta adeguata al terrorismo è di tipo militare, l’alleanza ha potuto articolare un discorso che legittima la sua sopravvivenza, giustificata da una lotta "necessaria" contro "il terrorismo" che minaccia "la democrazia". La NATO ricorre quindi agli stessi argomenti usati dal Pentagono per ottenere aumenti di bilancio e aderisce al concetto di "Scontro di civiltà".

Ricordiamolo: il concetto di "Scontro di civiltà", sviluppato da Samuel Huntington, non è una semplice teoria sull’evolvere dei rapporti internazionali, è un’ideologia costruita a piccole tappe negli anni ’90 per offrire un nemico che sostituisse l’URSS e giustificasse la sopravvivenza, e poi la crescita, dei fondi destinati al complesso militare-industriale. Oggigiorno sono pochi gli analisti e gli esperti mediatici in relazioni internazionali che rifiutano questo approccio: l’ex consigliere per la sicurezza nazionale del presidente americano Jimmy Carter, Zbigniew Brzezinski , è attualmente uno dei pochi che contestano una simile visione del mondo, da lui considerata controproducente per gl’interessi degli Stati Uniti [8].

La teoria dello "Scontro di civiltà" propone la visione di un complotto islamico mondiale altrettanto se non più pericoloso di quello ordito dal Blocco sovietico, e giustifica gl’interventi militari nelle zone in cui è ancora possibile trovare le ultime riserve importanti di energia fossile [9]. Secondo Washington, in effetti, la più grave minaccia per i paesi occidentali sarebbe oggi la possibilità dei "terroristi" di ottenere "armi di distruzione di massa" cedute dagli Stati ostili. Additare i "terroristi" come un gruppo compatto a livello mondiale è un nonsenso, così come lo è parlare di armi di distruzione di massa, termine che si riferisce in effetti tanto alle armi chimiche, ad esempio i gas tossici, che a quelle nucleari. Se evocare le due possibilità fa nascere nelle popolazioni male informate un’identica reazione di paura, non si tratta però delle stesse armi, e la risposta da dare è completamente diversa. Ma combattere per impedire che le armi cadano in "cattive mani" è uno slogan che mobilita le masse e che raramente viene contestato.

Costruendo un complotto islamico mondiale in grado di colpire ovunque, l’asse propagandistico giustifica il mantenimento di spese militari elevate e lo spiegamento di importanti truppe nelle zone che si "suppone" potrebbero diventare "rifugio" dei terroristi; permette inoltre di giustificare le minacce a paesi accusati di voler cedere armi micidiali ai gruppi terroristici.

Una simile ricostruzione delle relazioni internazionali ha avuto un successo incredibile nei più importanti media europei, in particolare in Francia. In effetti questa visione del mondo ha permesso di giustificare il fatto di avere respinto le rivendicazioni paritarie delle popolazioni delle ex colonie, assimilate ai musulmani, per una maggiore eguaglianza dei francesi detti "de souche" [10]. Il mito del grande complotto musulmano serve da stampella a una ideologia coloniale che oramai può essere difficilmente giustificata.

In tale situazione, la NATO non ha avuto difficoltà a giustificare la sua sopravvivenza, e ha anzi chiesto di poter svolgere in Europa un ruolo di primo piano nella "guerra al terrorismo". Il segretario generale della NATO, il democristiano olandese Jaap de Hoop Scheffer, ha quindi insistito, nel discorso pronunciato al Council on Foreign Relations di New York nel novembre 2004, sulla pertinenza dell’analisi americana del terrorismo, sulla necessità per l’Europa di aderirvi, e sul ruolo che poteva svolgere l’Alleanza in questo combattimento [11]. In nome della "guerra al terrorismo", le forze della NATO sono state recentemente usate in Germania per garantire che nessun attentato potesse funestare il campionato mondiale di calcio. Lo spiegamento, poco commentato nella stampa europea, ha fatto la gioia di Melanie Kirkpatrick, l’analista neoconservatore del Wall Street Journal, che vi ha visto un segno della crescente dimensione "globale" dell’alleanza [12]. In effetti, mettendo al centro delle sue preoccupazioni la lotta al "terrorismo", l’Alleanza ha aperto la strada a una ridefinizione della propria organizzazione.

Ridefinire l’organizzazione di fronte alle nuove sfide

Anche se un nuovo nemico è stato creato con scioltezza e se i partigiani della NATO ne hanno sottolineato il ruolo in questa lotta, non basta però a giustificare la sua necessità di più mezzi: bisogna che i responsabili europei siano d’accordo nel concederli. Ora, se è vero che nei loro discorsi i capi di Stato e di governo in Europa occidentale concordano sui problemi della "guerra al terrorismo" e riconoscono il ruolo che l’Alleanza atlantica potrebbe svolgere nella lotta al "terrorismo internazionale", è anche vero però che nei negoziati si mostrano restii ad accordare quanto viene loro richiesto. E lo si è in particolare notato nella conclusione della pomposa cerimonia organizzata dalla NATO nel febbraio 2004 per celebrare l’adesione dei nuovi membri.

I dirigenti europei parlano poco del loro scarso entusiasmo nel sostenere le riforme imposte da Washington per rendere le truppe della NATO un buon sostituto dell’armata statunitense, ma negli USA la situazione crea estremo imbarazzo. Lo sottolinea Jim Hoagland [13], analista conservatore del Washington Post, pronto però ad augurarsi che le difficoltà interne dell’attuale governo francese e la partenza di Gerhard Schröder dalla cancelleria tedesca possano inaugurare un periodo più propizio ai progetti statunitensi.

Non si può non notare come i tradizionali incensatori dell’Alleanza atlantica siano parchi di commenti sulle riforme militari che l’organizzazione deve affrontare: viene ricordata la necessità di conservare una "compatibilità" tra i diversi eserciti dell’alleanza e si sottolinea la conseguente necessità di "adattare" gli eserciti dei paesi membri, ma non si va più lontano. In effetti, sviluppando troppo questo problema si rischierebbe di dover ammettere che la "compatibilità" delle forze militari è solo un modo politicamente neutro di definire l’obbligo imposto ai membri della NATO di comprare materiale militare statunitense; i negoziati dell’alleanza finirebbero allora per rassomigliare troppo a un racket del complesso militare-industriale. Non è stata forse la Lockheed Martin a fondare, col buon ufficio del suo vicepresidente Bruce P. Jackson, l’US Committee to Expand NATO (comitato americano per l’espansione della NATO) [14] ? Raramente, però, quest’aspetto del problema viene messo in evidenza: le reazioni dell’opinione pubblica all’acquisto, nel dicembre 2002, di quarantotto F16 da parte del governo polacco (con fondi europei) hanno chiaramente mostrato che si tratta di un argomento sensibile.

I sostenitori della NATO preferiscono quindi eludere l’argomento e parlare della necessità, in nome della "guerra al terrorismo", di sviluppare l’azione dell’alleanza in certe aree del mondo in cui è ancora assente, mettendo da parte gli aspetti "tecnici" imposti da tali spiegamenti.

R. Nicholas Burns, nell’intervento sull’International Herald Tribune citato più sopra, si rallegrava per la partecipazione della NATO alla formazione delle truppe irachene organizzata dalla coalizione di occupazione, incitava a continuare gli sforzi in questa direzione, e si limitava a chiedere un "adattamento" dell’alleanza ai suoi nuovi compiti. In occasione della sua prima visita nei paesi del Golfo, Jaap de Hoop Scheffer ha sviluppato lo stesso tipo di argomentazione, e nel corso di una conferenza sul ruolo dell’Alleanza atlantica nel golfo arabo-persico, organizzata in collaborazione con la Rand Corporation, ha illustrato i cambiamenti nell’alleanza, sollecitando un partenariato con gli Stati del Golfo. De Hoop Scheffer ha lodato la collaborazione di questi paesi con l’Alleanza atlantica nell’ambito dell’Iniziativa di Istanbul e l’ha giustificata in nome delle evoluzioni geopolitiche e delle trasformazioni dei regimi locali. In tal modo ha presentato la NATO come un’organizzazione che sostiene le riforme democratiche nella regione (con gli stessi argomenti già usati per giustificare le adesioni dei paesi dell’est) e, dinanzi alla nuova minaccia globale che sarebbe rappresentata dal terrorismo internazionale, copre con la sua (benevola) protezione le nazioni in via di democratizzazione.

Presentare l’alleanza come un’unione delle democrazie contro il terrorismo richiede un ripensamento delle adesioni. L’ex presidente del governo spagnolo José-Maria Aznar , che con Vaclav Havel è uno dei due principali responsabili europei della corrente neoconservatrice, ha dunque fatto pubblicare dal suo think tank (la Fundación para el análisis y los estudios sociales) un rapporto [15] che suggerisce - per consentire a Australia, Giappone e Israele una più efficace partecipazione alla lotta contro il terrorismo - di far entrare anche questi paesi nella NATO, che in tal modo diverrebbe ufficialmente una "alleanza delle democrazie". L’argomento è spesso tirato in ballo, ma storicamente è un falso. Uno dei membri fondatori dell’alleanza fu il Portogallo di Salazar, la Grecia dei colonnelli vi partecipò a pieno titolo, e, via la rete stay behind, l’alleanza partecipò a numerosi tentativi di destabilizzazione di Stati membri o di colpi di Stato. È vero che la Spagna ha aderito formalmente all’alleanza solo nel 1982, dopo il passaggio alla democrazia, ma è anche vero che l’alleanza non mosse un dito per aiutarla e fece anzi sentire tutto il suo peso per impedire ai comunisti spagnoli di svolgere un ruolo troppo importante nel processo di democratizzazione. Anche Aznar, come Jaap de Hoop Scheffer, chiedeva un maggior peso della NATO nella "guerra al terrorismo", cioè, in concreto, un rafforzamento delle capacità d’ingerenza politica degli Stati Uniti in Europa.

La possibile adesione d’Israele alla NATO ha ripreso nuovamente quota con lo sviluppo della crisi iraniana. Nel corso della 42° conferenza annuale sulla politica di sicurezza, svoltasi a Monaco il 4 e 5 febbraio 2006, i 300 partecipanti hanno in effetti evocato l’allargamento della NATO e la crisi iraniana [16]. A priori, era difficile vedere il legame immaginato dagli organizzatori tra allargamento e crisi iraniana; ma la spiegazione dell’arcano era appena stata fornita da Aznar nel corso di una presentazione preparata da George Schultz alla Hoover Institution, e poi in un intervento pubblicato nel Wall Street Journal: la missione dell’Alleanza atlantica dovrebbe essere quella di coalizzare gli Stati occidentali, o occidentalizzati, per vincere la jihad in generale (in altri termini l’islam) e l’Iran in particolare. L’adesione di Israele all’alleanza creerebbe l’obbligo di tutti gli altri Stati membri di portare aiuto allo stato ebreo in caso di attacco dell’Iran, anche se per legittima difesa.

La conferenza si svolgeva un anno dopo la visita di Jaap de Hoop Scheffer, primo segretario generale dalla NATO a farlo, in Israele, dove aveva dato vita a un dibattito sull’utilità per gli israeliani di entrare nell’organizzazione. Da allora, l’argomento ritorna periodicamente a galla.

E poiché una domanda tira l’altra, se l’Alleanza atlantica si trasforma in una grande alleanza militare delle democrazie, o quanto meno dei regimi considerati tali a Washington, perché non farne un rimpiazzante dell’ONU? Se si parte dal principio che l’unico regime accettabile è la democrazia, allora la NATO, che le raggruppa tutte, diventa la più importante organizzazione legittima. L’argomento non è stato ancora molto sviluppato, dato che l’allargamento dell’alleanza non è ancora finito, ma lo si vede affacciarsi di tanto in tanto nei progetti e discorsi dei circoli atlantistici. Condoleeza Rice, e Madeleine Albright prima di lei, incoraggiano con regolarità la costituzione di un organismo che raggruppi, sotto l’egida degli Stati Uniti, tutte le "democrazie" del mondo. Dal suo canto, Victoria Nuland, ambasciatrice americana presso la NATO e moglie del teorico neoconservatore Robert Kagan, ha sollecitato nelle colonne di Le Monde una rifondazione dell’Alleanza, mantenendosi però nel vago quanto alle trasformazioni da introdurre. Anche se l’ambasciatrice non avanza proposte concrete, il suo intervento lascia chiaramente intravedere il progetto americano: quando domanda che l’Alleanza atlantica diventi il punto d’incontro delle democrazie e agisca non solo nelle sfere militare e umanitaria ma anche nel settore economico (in modo da garantire la prosperità dei suoi membri), la Nuland rimpiazza l’ONU con la NATO [17].

Questi progetti di trasformazione sono nella testa dei dirigenti atlantici e statunitensi, ma per ora sono ancora solo progetti vaghi, e per il momento l’Alleanza resta soprattutto un’organizzazione militare, legittimatasi con la lotta al terrorismo, che permette l’ingerenza americana in Europa e che serve anche, come sin dalla sua fondazione, a lasciare la Russia "fuori". In un testo che lo studio Project Syndicate e il Council on Foreign Relations hanno ampiamente diffuso tra i media, il segretario alla difesa Donald Rumsfeld ha dichiarato: "Oggigiorno la nostra attenzione si concentra sull’Iraq e l’Afganistan, ma nei prossimi anni le nostre priorità cambieranno. E quello che potremmo essere spinti a fare in futuro sarà probabilmente determinato dalle scelte di altre entità. Prendiamo l’esempio della Russia […]. La Russia è partner degli Stati Uniti in materia di sicurezza, e rispetto ai decenni passati le nostre relazioni sono nell’insieme di gran lunga migliorate. Ma in certe cose la Russia si è mostrata poco cooperativa: ad esempio, ha usato le proprie risorse energetiche come arma politica e ha resistito ai cambiamenti politici positivi realizzati dai propri vicini". L’autore puntava il dito anche contro la Cina, come altro potenziale nemico.

Si tratta di un recupero della dottrina Baker (dal nome di James Baker, ex segretario di Stato di George Bush padre), che vedeva nell’ampliamento a est della NATO un mezzo per impedire la rinascita dell’avversario russo. Rumsfeld ha adattato la strategia all’ideologia dello "Choc delle civiltà", secondo la quale le potenze asiatiche e russe saranno gli avversari da sconfiggere subito dopo averla fatta finita con "l’islamismo".

Soldati della NATO, quartier generale Heidelberg.

Traduzione per Comedonchisciotte.org a cura di Carlo Pappalardo.

[1Citazione originale: "Keep the Americans in, the Russians out and the Germans down."

[2"1980 : carnage à Bologne, 85 morts", Réseau Voltaire, 12 marzo 2004.

[3Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito, Stati Uniti.

[4Ai 12 membri originari si sono poi aggiunti Grecia e Turchia (1952), Repubblica federale tedesca (1955) e Spagna (1982).

[5Repubblica ceca, Polonia e Ungheria hanno aderito alla NATO nel 1999; Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Slovacchia e Slovenia nel 2004.

[6"Instaurer la paix et la stabilité dans les Balkans - 9. Relations avec la Serbie-et-Monténégro", servizio stampa della NATO.

[7"The war on terror is NATO’s new focus", di R. Nicholas Burns, International Herald Tribune, 6 ottobre 2004.

[8"Do These Two Have Anything in Common ?", di Zbigniew Brzezinski, Washington Post, 4 dicembre 2005.

[9"La “Guerre des civilisations”", di Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 4 giugno 2004.

[10"L’obsession identitaire des médias français", di Cédric Housez, Réseau Voltaire, 9 marzo 2006.

[11Alcuni passi dell’intervento sono stati ripresi nell’edizione del 15 novembre 2004 del quotidiano britannico The Independent sotto il titolo "Europe should wake up to the threat of terrorism".

[12"NATO Goes Global", di Melanie Kirkpatrick, Wall Street Journal, 13 giugno 2006.

[13"A Transformative NATO", di Jim Hoagland, Washington Post, 4 dicembre 2005.

[14"Une guerre juteuse pour Lockheed Martin", Réseau Voltaire, 7 febbraio 2003.

[15La OTAN : Una alianza por la Libertad. Cómo transformar la Alianza para defender efectivamente nuestra libertad y nuestras democracias, Fundación para el análisis y los estudios sociales, diciembre 2005. Vedere sul tema "L’OTAN : Une alliance pour la liberté", di Cyril Capdevielle, Réseau Voltaire, 6 dicembre 2005.

[17"Nouveaux horizons pour l’OTAN", di Victoria Nuland, Le Monde, 7 dicembre 2005.