Le polemiche sulla visita di Gheddafi hanno fatto perdere di vista il significato della foto che portava sul petto, quella di Omar al Mukhtar catturato nel 1931 dai militari italiani. Una finestra sulla nostra storia, che il Partito democratico e l’Italia dei Valori si sono precipitati a chiudere. Forse perché ancora di scottante attualità.

Agli inizi del Novecento l’Italia di Giolitti decise di occupare la Libia, parte dell’impero ottomano che si stava sgretolando. Dietro vi erano gli interessi della finanza, soprattutto quella vaticana già penetrata in Libia attraverso il Banco di Roma, e dei grossi industriali, che volevano una guerra perché aumentasse la spesa militare. Precedute da un bombardamento navale, le truppe italiane sbarcarono a Tripoli il 5 ottobre 1911. L’occupazione fu accompagnata da una forte propaganda. Mentre nei café-chantant si cantava «Tripoli, bel suol d’amore», sui giornali cattolici si scriveva «il nostro diritto su questa colonia è stato affermato col cannone» e nella chiesa pisana dei Cavalieri, addobbata di bandiere strappate ai turchi nel Cinquecento, il cardinale Pietro Maffi benediceva i fanti italiani in partenza per la Libia, esortandoli a «incrociare le baionette con le scimitarre» per portare nella chiesa «altre bandiere sorelle e redimere così l’Italia, la terra nostra, di novelle glorie».

L’invasione della Cirenaica e della Tripolitania, con un corpo di spedizione di oltre 100 mila uomini al comando di 24 generali, suscitò l’immediata resistenza della popolazione. La repressione fu spietata: furono fucilati o impiccati circa 4.500 arabi, tra cui donne e ragazzi. Molti altri furono deportati a Ustica e in altre isole, dove morirono quasi tutti di stenti e malattie. Iniziava così la lunga storia della resistenza libica, che sfidò la sempre più dura repressione soprattutto nel periodo fascista. Nel 1930, per ordine di Mussolini e dei generali Badoglio e Graziani, vennero deportati dall’altopiano cirenaico 100 mila abitanti, poi rinchiusi in una quindicina di campi di concentramento lungo la costa. Qualsiasi tentativo di fuga veniva punito con la morte. Per ordine di Mussolini e di Italo Balbo, l’aeronautica impiegò anche bombe all’iprite, proibite dal Protocollo di Ginevra del 1925. La Libia fu per l’aeronautica di Mussolini ciò che Guernica fu in Spagna per la luftwaffe di Hitler: il terreno di prova per armi e tecniche di guerra più micidiali.

I partigiani libici, guidati da Omar al Mukhtar, si batterono fino all’ultimo. Nel 1931, per tagliare loro i rifornimenti fu fatto costruire da Graziani, sul confine tra Cirenaica ed Egitto, un reticolato di filo spinato lungo 270 chilometri e largo alcuni metri. Individuato da un aereo, Omar al Mukhtar venne ferito e catturato. Fu impiccato il 16 settembre 1931, all’età di 73 anni, nel campo di concentramento di Soluch, di fronte a ventimila internati costretti ad assistere all’esecuzione, per «il reato più grave, quello di aver preso le armi per staccare questa Colonia dalla Madre Patria».