Per una settimana i media occidentali hanno ripreso le proteste e la repressione che avvengono nelle grandi città egiziane. Tracciano un parallelo con quelle che hanno portato alla caduta di Zine el-Abidine Ben Ali in Tunisia, ed evocano una ondata di rivolte nel mondo arabo. Sempre secondo, questo movimento potrebbe diffondersi alla Libia e alla Siria. Dovrebbe andare a vantaggio dei democratici laici, e non degli islamisti, continuano, perché l’influenza della religione è stata esagerata dall’amministrazione Bush e il "regime dei mullah" in Iran verrebbe emarginato. Così si compirà il desiderio di Barack Obama espresso all’Università del Cairo: la democrazia regnerà in Medio Oriente.

Questa analisi è sbagliato sotto tutti gli aspetti.

 In primo luogo, le manifestazioni in Egitto sono iniziate da diversi mesi. I media occidentali non vi hanno prestato attenzione, perché pensavano che non avrebbero portato a nulla. Gli egiziani non sono stati contaminati dai tunisini, ma sono i tunisini che ha aperto gli occhi dell’Occidente su ciò che accade in questa regione.

 In secondo luogo, i tunisini si sono ribellati contro un governo e un’amministrazione corrotti che si sono progressivamente distaccate dalla società, privando qualsiasi speranza a sempre più numerose classi sociali. La rivolta egiziana non è contro questo modo di sfruttamento, ma contro un governo e una amministrazione che sono così impegnate a servire gli interessi stranieri, che non hanno più l’energia per soddisfare i bisogni primari della loro popolazione. Negli ultimi anni, l’Egitto ha visto molti tumulti, sia contro la collaborazione con il sionismo, sia causati dalla fame. Questi due aspetti sono intimamente legati. I manifestanti evocano alla rinfusa gli accordi di Camp David, il blocco di Gaza, i diritti dell’Egitto sul Nilo, la partizione del Sudan, la crisi degli alloggi, la disoccupazione, l’ingiustizia e la povertà.

Inoltre, la Tunisia è stata amministrata da un regime poliziesco, mentre l’Egitto è un regime militare. Dico qui "amministrato", non "governato" - perché in entrambi i casi si tratta di Stati post-coloniale, di privati di una politica estera e della difesa indipendenti.
Ne consegue che in Tunisia, l’esercito ha potuto interporsi tra il popolo e la polizia del dittatore, mentre in Egitto, il problema sarà risolto col fucile automatico tra militari.

 In terzo luogo, se questo accade in Tunisia e in Egitto, sarà un incoraggiamento a tutti i popoli oppressi, non sono a quelli cui pensano i media occidentali. Per i giornalisti, i cattivi sono i governi che contestano, o fanno finta di contestare, la politica occidentale. Per quanto riguarda i popoli, i tiranni sono coloro che li sfruttano e li umiliano. Pertanto, non credo che vedremo gli stessi disordini a Damasco. Il governo di Bashar al-Assad è l’orgoglio dei Siriani: si schierò con la Resistenza e ha preservato i propri interessi nazionali senza mai cedere alla pressione. Soprattutto, ha protetto il paese dal destino serbatogli da Washington: o il caos all’irachena, o il dispotismo religioso alla saudita. Certo, è assai contestato in diversi aspetti della sua amministrazione, ma sviluppa una classe media e un processo decisionale democratico che vanno assieme. Al contrario degli stati come la Giordania e lo Yemen sono instabili, rispetto al mondo arabo, e il contagio può raggiungere anche l’Africa nera, il Senegal, per esempio.

 In quarto luogo, i media occidentali scoprono tardivamente che la minaccia islamista è uno spauracchio. Bisogna ancora ammettere che è stata attivata dagli USA di Clinton e dalla Francia di Mitterrand negli anni ’90 in Algeria, ed è stato gonfiato dall’amministrazione Bush dopo gli attentati dell’11 settembre, e alimentato dai governi neo-conservatori europei di Blair, Merkel e Sarkozy.
Dobbiamo anche ammettere che non c’è nulla di comune tra il wahabismo saudita e la rivoluzione islamica di Ruhollah Khomeini. Qualificarli entrambi come "islamici" non è solo assurdo, ma non consente di capire cosa sta succedendo.
I Saud hanno finanziato, in accordo con gli Stati Uniti, gruppi settari musulmani che predicano un ritorno a ciò che immaginano fosse la società nel settimo secolo, al tempo del Profeta Maometto. Non hanno un maggiore impatto nel mondo arabo degli Amish negli Stati Uniti, con i loro carretti tirati dai cavallo.
La rivoluzione di Khomeini non aveva lo scopo di creare una società religiosa perfetta, ma di rovesciare il sistema di dominio mondiale. Essa afferma che l’azione politica è un modo per l’uomo di sacrificarsi e di trascendere, e quindi che si può trovare nell’Islam l’energia necessaria al cambiamento.

I popoli del Medio Oriente non vuole sostituire le dittature poliziesche o militari che li opprimono, con dittature religiose. Non vi è alcuna minaccia islamista. Allo stesso tempo, gli ideali rivoluzionari islamici, che hanno già prodotto gli Hezbollah nella comunità sciita libanese, oramai influenza Hamas nella comunità sunnita palestinese. Potrebbe anche avere un ruolo nel movimento in corso, e ne ha già uno in Egitto.

 In quinto luogo, senza offesa per alcuni osservatori, anche se stiamo assistendo a un ritorno della questione sociale, questo movimento non può essere ridotto a una mera lotta di classe. Naturalmente, le classi dirigenti temono le rivoluzioni popolari, ma le cose sono più complicate. Così, non sorprende che il re Abdullah dell’Arabia Saudita abbia telefonato ad Obama per chiedergli di fermare questo pasticcio in Egitto e di proteggere i regimi della regione, il suo per primo. Ma anche questo re Abdullah ha appena promosso un cambiamento di regime in Libano attraverso la via democratica. Ha abbandonato il miliardario saudita-libanese Saad Hariri e ha aiutato la coalizione dell’8 Marzo, comprendente Hezbollah, a sostituirlo da primo ministro con un altro miliardario saudita-libanese, Najib Mikati. Hariri è stato eletto dai parlamentari che rappresentano il 45% dell’elettorato, mentre Mikati è stato eletto dai parlamentari che rappresentano il 70% degli elettori. Hariri era sottomesso a Washington e Parigi, Mikati annuncia una politica di sostegno alla resistenza nazionale. La questione della lotta contro il progetto sionista è ora sovradeterminata rispetto agli interessi di classe. Inoltre, più che la distribuzione della ricchezza, i manifestanti stanno sfidando il sistema capitalistico pseudo-liberale imposto dai sionisti.

 In sesto luogo, se torniamo al caso egiziano, i media occidentali si sono raccolti intorno a Mohamed ElBaradei che hanno designato leader dell’opposizione. E’ ridicolo. ElBaradei è una personalità piacevole, nota in Europa perché si ha resistito per qualche tempo all’amministrazione Bush, ma senza opporvisi completamente. Incarna la buona coscienza europea verso l’Iraq, che si era opposta alla guerra e che ha finito col sostenere l’occupazione. Tuttavia, oggettivamente, ElBaradei è l’acqua tiepida cui è stata assegnata il Nobel per la Pace che Hans Blix non ha avuto. E’ soprattutto una personalità senza eco nel suo paese. Esiste politicamente solo perché i Fratelli musulmani ne hanno fatto il loro portavoce presso i media occidentali.
Gli Stati Uniti hanno fabbricato degli oppositori più rappresentativi, come Ayman Nour, che presto sarà fatto uscire dal cappello, anche se le sue posizioni a favore del pseudo-liberalismo economico, lo squalificano riguardo la crisi sociale che il paese sta attraversando.
In ogni caso, in realtà, ci sono solo due organizzazioni di massa diffuse nella popolazione, che si sono a lungo opposto alla politica attuale: i Fratelli Musulmani, da un lato e la Chiesa cristiana copta dall’altra (anche se SB Chenoudda III distingue la politica sionista di Mubarak, che combatte, dal rais con il quale ha trattato). Questo punto è sfuggito ai media occidentali, perché hanno recentemente fatto credere al pubblico che i copti sono perseguitati dai musulmani, mentre erano per la dittatura di Mubarak.

Una digressione è utile qui: Hosni Mubarak ha designato Omar Suleiman quale vice presidente. Si tratta di un chiaro gesto volto a rendere più difficile l’eventuale sua eliminazione fisica da parte degli Stati Uniti. Mubarak è diventato presidente perché era stato nominato vice presidente e gli Stati Uniti fecero assassinare il presidente Anwar el-Sadat dal gruppo di Ayman al-Zawahri. Ha sempre rifiutato, fino ad ora, di nominare un vice-presidente per paura di essere ucciso a sua volta. Designando il generale Suleiman, ha scelto uno dei suoi complici con cui s’è sporcato le mani col sangue di Sadat. Ora, per prendere il potere, non solo si dovrà uccidere il presidente, ma anche il vice-presidente. Tuttavia, Omar Suleiman è il principale architetto della collaborazione con Israele, Washington e Londra pertanto lo proteggono come la pupilla dei propri occhi. Inoltre, Suleiman può contare sulle Forze di Difesa israeliane contro la Casa Bianca. Ha già fatto giungere dei cecchini e attrezzature israeliani che sono pronti per uccidere i leader della folla.

Il Generale-presidente Hosni Mubarak e il suo generale vice-presidente Omar Suleiman sono apparsi in televisione con i loro generali-consiglieri per far capire che l’esercito mantenere e manterrà il potere.

 In settimo luogo, la situazione attuale rivela le contraddizioni del governo degli Stati Uniti. Barack Obama ha teso la mano ai Musulmani, e ha chiesto democrazia durante il suo discorso all’Università del Cairo. Tuttavia oggi, farà il possibile per impedire le elezioni democratiche in Egitto. Se può trattare con un governo legittimo in Tunisia, non può farlo in Egitto. Delle elezioni beneficerebbero i Fratelli Musulmani e i Copti. Designerebbero un governo che aprirebbe la frontiera di Gaza e libererebbe il milione di persone che vi è incarcerato. I palestinesi, sostenuti dai loro vicini, Libano, Siria ed Egitto, poi rovescerebbero il giogo sionista.
Qui va notato che nel corso degli ultimi due anni, gli strateghi israeliani hanno considerato un piano di ritorsione. Considerando che l’Egitto è una bomba sociale, che la rivoluzione è inevitabile e imminente, hanno progettato di promuovere un colpo di stato militare in favore di un ufficiale ambizioso e incompetente. Quest’ultimo avrebbe poi lanciato una guerra contro Israele e avrebbe fallito. Tel Aviv sarebbe stata in grado di riconquistare il suo prestigio militare e di recuperare il monte Sinai e le sue risorse naturali. Sappiamo che Washington si oppone fermamente a questo scenario, troppo difficile da padroneggiare.

In definitiva, l’impero anglosassone è rimasto ancorato ai principi ha fissato nel 1945: è favorevole alle democrazie che fanno la "scelta giusta" (quella della sottomissione), è contrario ai popoli che fanno "quella sbagliata" (l’indipendenza).
Pertanto, se ritenuto necessario, Washington e Londra sosterrebbero senza esitazioni un bagno di sangue in Egitto, a condizione che i militari che l’attuassero s’impegnino a sostenere lo status quo internazionale, sopra tutte le altre priorità.

Traduzione di Alessandro Lattanzio