I cadaveri mutilati

Cos’era avvenuto in realtà? Avvalendosi dell’analisi di Debord relativa alla «società dello spettacolo», un illustre filosofo italiano (Giorgio Agamben) ha sintetizzato in modo magistrale la vicenda di cui qui si tratta:
«Per la prima volta nella storia dell’umanità, dei cadaveri appena sepolti o allineati sui tavoli delle morgues [degli obitori] sono stati dissepolti in fretta e torturati per simulare davanti alle telecamere il genocidio che doveva legittimare il nuovo regime. Ciò che tutto il mondo vedeva in diretta come la verità vera sugli schermi televisivi, era l’assoluta non-verità; e, benché la falsificazione fosse a tratti evidente, essa era tuttavia autentificata come vera dal sistema mondiale dei media, perché fosse chiaro che il vero non era ormai che un momento del movimento necessario del falso. Così verità e falsità diventavano indiscernibili e lo spettacolo si legittimava unicamente mediante lo spettacolo.

Timisoara è, in questo senso, l’Auschwitz della società dello spettacolo: e come è stato detto che, dopo Auschwitz, è impossibile scrivere e pensare come prima, così, dopo Timisoara, non sarà più possibile guardare uno schermo televisivo nello stesso modo» (Agamben 1996, p. 67).
Il 1989 è l’anno in cui il passaggio dalla società dello spettacolo allo spettacolo come tecnica di guerra si manifestava su scala planetaria. Alcune settimane prima del colpo di Stato ovvero della «rivoluzione da Cinecittà» in Romania (Fejtö 1994, p. 263), il 17 novembre 1989 la «rivoluzione di velluto» trionfava a Praga agitando una parola d’ordine gandhiana: «Amore e Verità». In realtà, un ruolo decisivo svolgeva la diffusione della notizia falsa secondo cui uno studente era stato «brutalmente ucciso» dalla polizia. A vent’anni di distanza lo rivela, compiaciuto, «un giornalista e leader della dissidenza, Jan Urban», protagonista della manipolazione: la sua «menzogna» aveva avuto il merito di suscitare l’indignazione di massa e il crollo di un regime già pericolante (Bilefsky 2009). Qualcosa di simile avviene in Cina: l’8 aprile 1989 Hu Yaobang, segretario del PCC sino al gennaio di due anni prima, viene colto da infarto nel corso di una riunione dell’Ufficio Politico e muore una settimana dopo. Dalla folla di piazza Tienanmen il suo decesso viene collegato al duro conflitto politico emerso anche nel corso di quella riunione (Domenach, Richer 1995, p. 550); in qualche modo egli diviene la vittima del sistema che si tratta di rovesciare. In tutti e tre i casi, l’invenzione e la denuncia di un crimine sono chiamate a suscitare l’ondata di indignazione di cui il movimento di rivolta ha bisogno. Se consegue il pieno successo in Cecoslovacchia e Romania (dove il regime socialista aveva fatto seguito all’avanzata dell’Armata Rossa), questa strategia fallisce nella Repubblica popolare cinese scaturita da una grande rivoluzione nazionale e sociale. Ed ecco che tale fallimento diviene il punto di partenza di una nuova e più massiccia guerra mediatica, che è scatenata da una superpotenza la quale non tollera rivali o potenziali rivali e che è tuttora in pieno svolgimento. Resta fermo che a definire la svolta storica è in primo luogo Timisoara, «l’Auschwitz della società dello spettacolo».

«Reclamizzare i neonati» e il cormorano

Due anni dopo, nel 1991, interveniva la prima guerra del Golfo. Un coraggioso giornalista statunitense ha chiarito in che modo si è verificata «la vittoria del Pentagono sui media» ovvero la «colossale disfatta dei media a opera del governo degli Stati Uniti» (Macarthur 1992, pp. 208 e 22).
Nel 1991 la situazione non era facile per il Pentagono (e per la Casa Bianca). Si trattava di convincere della necessità della guerra un popolo su cui pesava ancora il ricordo del Vietnam. E allora? Accorgimenti vari riducono drasticamente la possibilità per i giornalisti di parlare direttamente coi soldati o di riferire direttamente dal fronte. Nella misura del possibile tutto dev’essere filtrato: il puzzo della morte e soprattutto il sangue, le sofferenze e le lacrime della popolazione civile non devono fare irruzione nelle case dei cittadini degli USA (e degli abitanti del mondo intero) come ai tempi della guerra del Vietnam. Ma il problema centrale e di più difficile soluzione è un altro: in che modo demonizzare l’Irak di Saddam Hussein, che ancora qualche anno prima si era reso benemerito, agli occhi degli USA, aggredendo l’Iran scaturito dalla rivoluzione islamica e antiamericana del 1979 e incline a far proseliti nel Medio Oriente. La demonizzazione sarebbe risultata tanto più efficace se al tempo stesso si fosse resa angelica la vittima. Operazione tutt’altro che agevole, e non solo per il fatto che dura o impietosa era in Kuwait la repressione di ogni forma di opposizione. C’era qualcosa di peggio. A svolgere i lavori più umili erano gli emigrati, sottoposti a una «schiavitù di fatto», e a una schiavitù di fatto che assumeva spesso forme sadiche: non suscitavano particolare emozione i casi di «serbi scaraventati giù dal terrazzo, bruciati o accecati o picchiati a morte» (Macarthur 1992, pp. 44-45).
E, tuttavia… Generosamente o favolosamente ricompensata, un’agenzia pubblicitaria trovava un rimedio a tutto. Essa denunciava il fatto che i soldati irakeni tagliavano le «orecchie» ai kuwaitiani che resistevano. Ma il colpo di teatro di questa campagna era un altro: gli invasori avevano fatto irruzione in un ospedale «rimuovendo 312 neonati dalle loro incubatrici e lasciandoli morire sul freddo pavimento dell’ospedale di Kuwait City» (Macarthur 1992, p. 54). Sbandierata ripetutamente dal presidente Bush sr., ribadita dal Congresso, avallata dalla stampa più autorevole e persino da Amnesty International, questa notizia così orripilante ma anche così circonstanziata da indicare con assoluta precisione il numero dei morti, non poteva non provocare una travolgente ondata di indignazione: Saddam era il nuovo Hitler, la guerra contro di lui era non solo necessaria ma anche urgente e coloro che a essa si opponevano o recalcitravano erano da considerare quali complici più o meno consapevoli del nuovo Hitler! La notizia era ovviamente un’invenzione sapientemente prodotta e diffusa, ma proprio per questo l’agenzia pubblicitaria aveva ben meritato il suo denaro.

La ricostruzione di questa vicenda è contenuta in un capitolo del libro qui citato dal titolo calzante: «Reclamizzare i neonati» (Selling Babies). Per la verità, a essere «reclamizzati» non furono soltanto i neonati. Proprio agli inizi delle operazioni belliche veniva diffusa in tutto il mondo l’immagine di un cormorano che affogava nel petrolio sgorgante dai pozzi fatti saltare dall’Irak. Verità o manipolazione? A provocare la catastrofe ecologica era stato Saddam? E ci sono realmente cormorani in quella regione del globo e in quella stagione dell’anno? L’ondata dell’indignazione, autentica e sapientemente manipolata, travolgeva le ultime resistenze razionali.

La produzione del falso, il terrorismo dell’indignazione e lo scatenamento della guerra

Facciamo un ulteriore salto in avanti di alcuni anni e giungiamo così alla dissoluzione o piuttosto, allo smembramento della Jugoslavia. Contro la Serbia, che storicamente era stata la protagonista del processo di unificazione di questo paese multietnico, nei mesi che precedono i bombardamenti veri e propri si scatenano una dopo l’altra ondate di bombardamenti multimediali. Nell’agosto del 1998, un giornalista americano e uno tedesco
«riferiscono dell’esistenza di fosse comuni con 500 cadaveri di albanesi tra cui 430 bambini nei pressi di Orahovac, dove si è duramente combattuto. La notizia è ripresa da altri giornali occidentali con grande rilievo. Ma è tutto falso, come dimostra una missione d’osservazione della Ue» (Morozzo Della Rocca 1999, p. 17).

Non per questo fa fabbrica del falso entrava in crisi. Agli inizi del 1999 i media occidentali cominciavano a tempestare l’opinione pubblica internazionale con le foto di cadaveri ammassati al fondo di un dirupo e talvolta decapitati e mutilati; le didascalie e gli articoli che accompagnavano tali immagini proclamavano che si trattava di civili albanesi inermi massacrati dai serbi. Sennonché:
«Il massacro di Racak è raccapricciante, con mutilazioni e teste mozzate. E’ una scena ideale per suscitare lo sdegno dell’opinione pubblica internazionale. Qualcosa appare strano nelle modalità dell’eccidio. I serbi abitualmente uccidono senza procedere a mutilazioni [...] Come la guerra di Bosnia insegna, le denunce di efferatezze sui corpi, segni di torture, decapitazioni, sono una diffusa arma di propaganda [...] Forse non i serbi ma i guerriglieri albanesi hanno mutilato i corpi» (Morozzo Della Rocca 1999, p. 249).

O, forse, i cadaveri delle vittime di uno degli innumerevoli scontri tra gruppi armati erano stati sottoposti a un successivo trattamento, in modo da far credere a un’esecuzione a freddo e a uno scatenamento di furia bestiale, di cui era immediatamente accusato il paese che la NATO si apprestava a bombardare (Saillot 2010, pp. 11-18).

La messa in scena di Racak era solo l’apice di una campagna di disinformazione ostinata e spietata. Qualche anno prima, il bombardamento del mercato di Sarajevo aveva consentito alla NATO di ergersi a suprema istanza morale, che non poteva permettersi di lasciare impunite le «atrocità» serbe. Ai giorni nostri si può leggere persino sul «Corriere della Sera» che «fu una bomba di assai dubbia paternità a fare strage nel mercato di Sarajevo facendo scattare l’intervento NATO» (Venturini 2013). Con questo precedente alle spalle, Racak ci appare oggi come una sorta di riedizione di Timisoara, una riedizione prolungatasi per alcuni anni. E, tuttavia, anche in questo caso il successo non mancava. L’illustre filosofo che nel 1990 aveva denunciato «l’Auschwitz della società dello spettacolo» verificatasi a Timisoara cinque anni dopo si accodava al coro dominante, tuonando in modo manicheo contro «il repentino slittamento delle classi dirigenti ex comuniste nel razzismo più estremo (come in Serbia, col programma di “pulizia etnica”)» (Agamben 1995, pp. 134-35). Dopo aver acutamente analizzato la tragica indiscernibilità di «verità e falsità» nell’ambito della società dello spettacolo, egli finiva col confermarla involontariamente, accogliendo in modo sbrigativo la versione (ovvero la propaganda di guerra) diffusa dal «sistema mondiale dei media», da lui precedentemente additato come fonte principale della manipolazione; dopo aver denunciato la riduzione del «vero» a «momento del movimento necessario del falso», operata dalla società dello spettacolo, egli si limitava a conferire una parvenza di profondità filosofica a questo «vero» ridotto per l’appunto a «momento del movimento necessario del falso».

Per un altro verso, un elemento della guerra contro la Jugoslavia, più che a Timisoara, ci riconduce alla prima guerra del Golfo. È il ruolo svolto dalle public relations:
«Milosevic è un uomo schivo, non ama la pubblicità, non ama mostrarsi o tenere discorsi in pubblico. Sembra che alle prime avvisaglie di disgregazione della Jugoslavia, la Ruder&Finn, compagnia di pubbliche relazioni che stava lavorando per il Kuwait nel 1991, gli si presentasse offrendo i suoi servizi. Fu congedata. Ruder&Finn venne assunta invece immediatamente dalla Croazia, dai musulmani di Bosnia e dagli albanesi del Kosovo per 17 milioni di dollari all’anno, per proteggere e incentivare l’immagine dei tre gruppi. E fece un ottimo lavoro!

James Harf, direttore di Ruder&Finn Global Public Affairs, in un’intervista [...] affermava: “Abbiamo potuto far coincidere nell’opinione pubblica serbi e nazisti [...] Noi siamo dei professionisti. abbiamo un lavoro da fare e lo facciamo. Non siamo pagati per fare la morale”» (Toschi Marazzani Visconti 1999, p. 31).

Veniamo ora alla seconda guerra del Golfo: nei primi giorni del febbraio 2003 il segretario di Stato USA, Colin Powell, mostrava alla platea del Consiglio di Sicurezza dell’ONU le immagini dei laboratori mobili per la produzione di armi chimiche e biologiche, di cui l’Irak sarebbe stato in possesso. Qualche tempo dopo il primo ministro inglese, Tony Blair, rincarava la dose: non solo Saddam aveva quelle armi, ma aveva già elaborato piani per usarle ed era in grado di attivarle «in 45 minuti». E di nuovo lo spettacolo, più ancora che preludio alla guerra, costituiva il primo atto di guerra, mettendo in guardia contro un nemico di cui il genere umano doveva assolutamente sbarazzarsi.
Ma l’arsenale delle armi della menzogna messe in atto o ponte per l’uso andava ben oltre. Al fine di «screditare il leader iracheno agli occhi del suo stesso popolo» la Cia si proponeva di «diffondere a Bagdad un filmato in cui veniva rivelato che Saddam era gay. Il video avrebbe dovuto mostrare il dittatore iracheno mentre faceva sesso con un ragazzo. “Doveva sembrare ripreso da una telecamera nascosta, come se si trattasse di una registrazione clandestina». A essere studiata era anche «l’ipotesi di interrompere le trasmissioni della televisione irachena con una finta edizione straordinaria del telegiornale contenente l’annuncio che Saddam aveva dato le dimissioni e che tutto il potere era stato preso dal suo temuto e odiato figlio Uday» (Franceschini 2010).

Se il Male dev’essere mostrato e bollato in tutto il suo orrore, il Bene deve risultare in tutto il suo fulgore. Nel dicembre 1992, i marines statunitensi sbarcavano sulla spiaggia di Mogadiscio. Per l’esattezza vi sbarcavano due volte, e la ripetizione dell’operazione non era dovuta a impreviste difficoltà militari o logistiche. Occorreva dimostrare al mondo che, prima ancora di essere un corpo militare di élite, i marines erano un’organizzazione benefica e caritatevole che riportava la speranza e il sorriso al popolo somalo devastato dalla miseria e dalla fame. La ripetizione dello sbarco-spettacolo doveva emendarlo dei suoi dettagli errati o difettosi. Un giornalista e testimone spiegava:
«Tutto quello che sta accadendo in Somalia e che avverrà nelle prossime settimane è uno show militar-diplomatico […] Una nuova epoca nella storia della politica e della guerra è cominciata davvero, nella bizzarra notte di Mogadiscio […] L’ “Operazione Speranza” è stata la prima operazione militare non soltanto ripresa in diretta dalle telecamere, ma pensata, costruita e organizzata come uno show televisivo» (Zucconi 1992).

Mogadiscio era il pendant di Timisoara. A pochi anni di distanza dalla rappresentazione del Male (il comunismo che finalmente crollava) faceva seguito la rappresentazione del Bene (l’Impero americano che emergeva dal trionfo conseguito nella guerra fredda). Sono ormai chiari gli elementi costitutivi della guerra-spettacolo e del suo successo.

Riferimenti bibliografici

Giorgio Agamben 1995
Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino

Giorgio Agamben 1996
Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino

Dan Bilefsky 2009
«A rumor that set off the Velvet Revolution», in International Herald Tribune del 18 novembre, pp. 1 e 4

Jean-Luc Domenach, Philippe Richer 1995
La Chine, Seuil, Paris

François Fejtö 1994 (em colaboração con Ewa Kulesza-Mietkowski)
La fin des démocraties populaires (1992), tr. it., di Marisa Aboaf, La fine delle democrazie popolari. L’Europa orientale dopo la rivoluzione del 1989, Mondadori, Milano

Enrico Franceschini 2010
«La Cia girò un video gay per far cadere Saddam», La Repubblica, 28 maggio, p. 23

John R. Macarthur 1992
Second Front. Censorship and Propaganda in the Gulf War, Hill and Wang, New York

Roberto Morozzo Della Rocca 1999
«La via verso la guerra», in Supplemento al n. 1 (Quaderni Speciali) di Limes. Rivista Italiana di Geopolitica, pp. 11-26

Fréderic Saillot 2010
Racak. De l’utilité des massacres, tome II, L’Hermattan, Paris

Jean Toschi Marazzani Visconti 1999
«Milosevic visto da vicino», Supplemento al n. 1 (Quaderni Speciali) di Limes. Rivista Italiana di Geopolitica, pp. 27- 34

Franco Venturini 2013
«Le vittime e il potere atroce delle immagini», in Corriere della Sera del 22 agosto, pp. 1 e 11

Vittorio Zucconi 1992
«Quello sbarco da farsa sotto i riflettori TV», in La Repubblica del 10 dicembre