Quattro anni dopo l’invasione dell’Iraq da parte delle truppe anglosassoni, Washington, Londra, e Canberra cercano di inquadrare nella visione del diritto internazionale il saccheggio che stanno compiendo. Le convenzioni internazionali sono chiare: le truppe di occupazione non possono confiscare a proprio vantaggio le ricchezze di un paese, soprattutto se si tratta di petrolio. Nel caso in oggetto, dopo un periodo di sfruttamento sfrenato mediante un’impresa privata abilmente designata con il nome "Autorità Provvisoria della Coalizione", si consegnò il potere, in un secondo periodo, ad un governo fantoccio nella Zona Verde di Baghdad.

Questo aveva una funzione duplice: da un lato, quella di creare forze di sicurezza capaci di alleggerire i compiti delle truppe occupanti, e, d’altra parte, quella di chiudere gli occhi di fronte allo sfruttamento quotidiano di un numero di barili di petrolio oscillanti tra i 200.000 e i 300.000 al giorno. Ora è giunto il momento di entrare nella terza fase, durante la quale le forze di occupazione potranno porre nelle mani dei fantocci la responsabilità dell’ordine pubblico e concentrarsi nella protezione dei pozzi di petrolio, mentre si legalizza attraverso patti leonini il saccheggio dei decenni prossimi.

E’ in questo contesto che uno sciopero di operai del settore petrolifero iracheno, iniziato il 4 Giugno 2007, paralizzò la principale zona produttrice del paese e interruppe per vari giorni le esportazioni legali di petrolio. Fino ad ora queste hanno raggiunto, ufficialmente, i due milioni di barili al giorni; una catastrofe per le compagnie straniere se questa cifra viene confrontata con quella di 3,5 milioni di dollari al giorno corrispondente all’epoca precedente all’invasione di Marzo 2003.

Tra le sue richieste, oltre che l’annullamento delle misure che hanno peggiorato seriamente le condizioni di lavoro e aumentato l’indice di disoccupazione nel settore, la Federazione irachena dei sindacati del petrolio, che rappresenta 26.000 lavoratori, chiede di essere consultata sull’assai controverso progetto di Legge sugli Idrocarburi. La Federazione reclama anche l’annullamento dell’aumento generalizzato dei prezzi dei combustibili all’interno del paese, misura che peggiora una situazione economica già difficile per la popolazione.

I responsabili sindacali dichiarano che stanno agendo in nome del popolo e denunciano specificamente la privatizzazione dei ricavi che il paese ottiene dalla vendita di petrolio a "condizioni scandalosamente vantaggiose" per le compagnie straniere, misura prevista nel progetto di legge.

Dall’inizio dello sciopero, il governo di Nuri al-Maliki ordinò che i suoi soldati circondassero gli scioperanti ed emise un ordine di arresto contro i capi sindacali, accusandoli di "sabotare l’economia", mentre aerei da guerra statunitensi volavano sui manifestanti. Finora, le forze armate del governo iracheno si sono rifiutate di eseguire gli arresti ordinati.

Inquieto per la possibilità che sorgente dei dollari si esaurisca, Nuri al-Maliki ha iniziato a fare promesse agli scioperanti perché riprendano a lavorare, ma questi ultimi sanno bene che la lotta è lungi dall’essere terminata.

Due successivi avvisi di sciopero erano stati posposti durante il mese di Maggio, come conseguenza di vari tentativi negoziali con i sindacati intrapresi dal governo di al-Maliki. Quest’ultimo sta cercando, dal mese di Febbraio, di imporre il famoso progetto di legge, redatto sotto la supervisione del Dipartimento di Stato nonostante l’opposizione di un gran numero di parlamentari, di un gruppo di 60 esperti iracheni del settore petrolifero e di tutti i sindacati, e anche contro l’opinione di una popolazione che da quattro anni vive sotto l’occupazione militare straniera.

Il bottino? Il 10% delle riserve mondiali di petrolio

Possessore del 10% delle riserva mondiali di petrolio, l’Iraq risveglia la cupidigia delle principali compagnie, sopratutto perché i costi di sfrutamento dei giacimenti iracheni sono tra i più bassi del mondo. Le dichiarazioni dell’attuale vicepresidente degli Stati Uniti, Dick Cheney, quando dirigeva il consorzio Halliburton, ed i lavori della commissione segreta sull’energia che lo stesso diresse nell’anno 2001 no ingannavano nessuno sulle intenzioni per il dopo che si sarebbe concretizzato con l’abbattimento di Saddam Hussein, e con il ristabilimento dell’accesso delle compagnie anglosassoni alle riserve petrolifere irachene.

Inquieta di fronte al ristagno del valore delle sue azioni e alla diminuzione del ritorno dei suoi investimenti, l’industria petrolifera anglosassone temeva in quell’occasione di vedersi definitivamente esclusa dalla zona petrolifera più ricca del mondo. Il discorso di Dick Cheney ebbe allora il valore di una promessa, cioè che quando sarebbe arrivato alla Casa Bianca, grazie alle donazioni delle compagnie, avrebbe pensato lui a farle entrare nel gioco.

Dall’invasione dell’Iraq da parte della coalizione petrolifera, le azioni di Exxon, BP-Amoco e Shell cominciarono a salire di nuovo, in maniera spettacolare e senza altra spiegazione che la prospettiva dei grandi dividendi per i suoi azionisti, dividendi che avevano perduto quando Saddam Hussein aveva nazionalizzato il petrolio nel 1972.

Nella cornice del progetto Il Futuro del’Iraq, messo in moto dal Dipartimento di Stato statunitense nell’Aprile del 2002, cioè un anno prima dell’invasione, il gruppo "Petrolio e Energia", che si riunì quattro volte tra il Dicembre 2002 e l’Aprile 2003, e del quale era membro Bahr al-Ulhum, che sarebbe diventato più tardi ministro del petrolio nel paese "liberato", esprimeva le sue conclusioni alla seguente maniera: L’Iraq "deve essere aperto alle compagnie internazionali il più presto possibile dopo la fine della guerra". Un’altra sua conclusione era che "il paese deve instaurare un clima commerciale propizio per attrarre gli investimenti nelle risorse petrolifere e nel gas".

In effetti, l’argomento più utilizzato nella stampa legata ai grandi interessi finanziari per giustificare la privatizzazione delle entrate petrolifere irachene (già in corso) o iraniane (ardentemente desiderate per il futuro) è quello della necessità di massicci investimenti, che i paesi in questione non potrebbero realizzare, per poter aumentare la produzione nella prospettiva di rispondere ad una domanda crescente dei paesi consumatori. Il problema è che questo ragionamento entra in conflitto diretto con gli interessi degli stati produttori: mentre le compagnie devono aumentare al massimo i propri profitti a breve termine per distribuire dividendi annuali agli azionisti, gli stati hanno l’obbligo di amministrare le risorse nazionali pensando ai propri cittadini e alle future generazioni.

Nel contesto del calo, ora sicuro, della produzione globale di petrolio nei prossimi anni, l’interesse delle compagnie private è assorbirlo tutto il più rapidamente possibile e, dopo, vivere sulla scarsità. Al contrario, l’interesse degli stati produttori è distribuire la produzione per mantenerla e prolungarla il più a lungo possibile.

L’intervento di BearingPoint

In vista della privatizzazione dell’economia irachena il Dipartimento di Stato USA è ricorso alla BearingPoint. La creazione della BearingPoint ebbe luogo nel 2002, dopo lo scandalo Enron, mediante la fusione delle sezioni di consulenza di KMPG negli Stati Uniti (le stesse che avevano "riorganizzato" le economie degli stati post-sovietici negli anni 90) e di Arthur Andersen in Francia. Questa nuova società opera congiutamente con USAID in più di 60 paesi, principalmente in Afghanistan e in Iraq, ma anche in Serbia e in Egitto. La SEC (Security and Exchange Commission), organismo statunitense di controllo delle attività finanziarie, sta esaminando da vicino i suoi bilanci senza arrivare a niente di contreto.

E’ rivelatore il fatto che questa stessa commissione affidò di recente la riorganizzazione del suo sistema di archiviazione alla... BearingPoint, il che la dice lunga sui vincoli esistenti tra questa società e l’amministrazione.

In Iraq, USAID ha siglato subito con BearingPoint, già nel 2003, un contratto da più di 200 milioni di dollari perché aiuti a sviluppare "il settore privato competitivo", contratto redatto tra USA e BearingPoint che portò il Center for Corporate Policy di Ralph Nader a segnalare la società come una di quelle che stanno facendo profitti con la guerra. Il contratto menzionato prevede l’organizzazione, sotto la supervisione di un’altra impresa privata, l’Autorità Provvisoria della Coalizione, l’attribuzione di ricavi provenienti dal petrolio alle imprese statunitensi incaricate della ricostruzione, come la Halliburton. Mentre i primi 10 miliardi di dollari del fondo proveniente dalle entrate petrolifere irachene vengono spesi in contratti di ricostruzione, altri 4 miliardi semplicemente spariscono. E questo era solo il principio.

Questo vuoto giuridico e questa assenza totale di trasparenza erano indispensabili per mantenere il saccheggio del paese mentre i nobili obiettivi dell’invasione stavano sotto i riflettori, dato che Stati Uniti, Regno Unito e Australia hanno sempre negato che avevano invaso l’Iraq per le sue risorse petrolifere. Il 18 Marzo del 2003, il primo ministro britannico Tony Blair dichiarava che "Le entrate petrolifere, che alcuni designano erroneamente come il nostro obiettivo di guerra, dovrebbero essere depositate in un fondo destinato al popolo iracheno e gestito dall’ONU". Paul Wolfowitz, grande architetto della distruzione dello stato iracheno e segretario aggiunto alla difesa al momento dell’invasione, dichiarava per parte sua: "Si tratta di un paese che può realmente finanziare la sua ricostruzione in modo piuttosto rapido".

Se il primo esprimeva un desiderio che nella realtà non lo impegnava in alcun modo, il secondo mentiva per omissione: è vero che l’Iraq poteva finanziare la sua ricostruzione, ma non ricostruirsi da sé. Il vero problema era, pertanto, sapere chi avrebbe ricostruito l’Iraq, riscuotendo nel frattempo gli introiti provenienti dal petrolio.

Dopo aver dilapidato in maniera spettacolare i fondi esistenti, Paul Bremer si incaricò di decidere a favore di... Halliburton e compagnia, la cui abitudine di sovrafatturare sistematicamente i contratti pubblici è ampiamente nota, oltre a servire come catena di trasmissione dell’indebitamento delle nazioni che posseggono risorse naturali presso la Banca Mondiale, la cui presidenza sarebbe stata succesivamente assegnata a Wolfowitz, forse come ricompensa.

Ora che l’occupazione del paese si giustifica da sé, nella misura in cui il suo obiettivo ufficiale è trovare una soluzione alla situazione di caos che essa stessa ha creato, la priorità per le potenze della coalizione è approfittarsi dell’atmosfera di terrore per imporre la Legge sugli Idrocarburi (Iraq Hydrocarbon Law) che permetterà di trasferire gli introiti petroliferi dello stato alle compagnie straniere.

Ed è di nuovo la BearingPoint che riceve dal Dipartimento di Stato il compito di redigere il progetto di Legge. Una prima versione fu rapidamente adottata dal governo collaborazionista di al-Maliki nel Gennaio del 2007.

Parallelamente, si organizza una importante operazione di intrighi tra gli Iracheni incaricati di decidere. Rappresentanti delle principali compagnie petrolifere straniere (BP, Shell, ExxonMobil, Chevron, Total e Eni), raggruppate nella organizzazione denominata International Tax and Investement Center (ITIC), comunicano le proprie rimostranze al governo britannico nel 2004. Quest’ultimo, dopo aver indicato la sua strategia tendente a influire sul governo iracheno, trasmette queste lamentele al ministero iracheno delle Finanze ed organizza un incontro a Beirut, nel Gennaio del 2005, tra i rapresentanti delle compagnie ed i ministri iracheni del petrolio, delle finanze e della pianificazione. D’altro lato, già nel 2003, un ex dirigente di BP riceve l’incarico di redigere un documento che stabilisce i termini dell’accordo, documento destinato al governo iracheno perché prenda decisioni conformi ai desideri di BP.

Per quanto sia probabile che gli altri paesi implicati in questi negoziati abbiano fatto lo stesso, i documenti declassificati da allora non permettono di determinarlo con certezza. L’invito che ricevette Total a partecipare a queste decisioni spiega per lo meno in parte il cambio di atteggiamento della Francia, che si produsse al principio del 2005, a proposito dell’occupazione dell’Iraq.

Per parte loro, i parlamentari iracheni non videro il progetto di legge fino a Gennaio del 2007, nel momento della sua adozione da parte dell’amministrazione Maliki. Stando così le cose risulta forse sorprendente che un piano come questo, redatto da un ufficio di consulenza specializzato nello smantellamento dei servizi pubblici, con l’appoggiodi una campagna di intrighi da parte delle compagnie straniere di fronte ad un governo fantoccio, incontri tanta opposizione da parte dei parlamentari e dei sindacati?

Il metodo: i contratti PSA

L’aspetto pù inquietante continua ad esse la natura stessa di questo progetto di legge. Basato su un tipo di contratto chiamato "Contratto di Ripartizione della Produzione" (production sharing agreement, o PSA) che cessò di essere usato in Medio Oriente dopo le nazionalizzazioni degli anni 70, garantisce alle compagnie straniere un ritorno dei suoi investimenti anormalmente alto per un periodo anormalmente lungo, termini che gli interessati giustificano con... i problemi di sicurezza nel paese!

Di fatto durante un periodo indefinito di ammortamento degli investimenti, i PSA garantiscono all’investitore straniero una percentuale degli introtiti, quando in realtà il tipo di concessione che più si pratica tra i paesi produttori prevede un ritorno fisso, calcolato in funzione del costo di produzione, non del prezzo finale di vendita, durante un periodo ben definito. Molto spesso la compagnia nazionale assume persino il controllo pieno delle operazioni e incamera tutti gli introiti dopo il periodo di ammortamento, come succede in Iran con numerosi giacimenti (contratti chiamati "buyback").

Quando un contratto PSA è in vigore, la compagnia straniera deve solo far credere che sta sostenendo grossi investimenti, siano questi reali o no, perché così prolunga le sue prerogative. Questo è quello che sta accadendo in Russia, l’unico paese ad avere importanti riserve che ha firmato contratti PSA. Questi contratti vennero negoziati sotto la corrotta amministrazione di Boris Eltsin, negli anni 90, cosa che l’attuale amministrazione Putin deplora oggi amaramente. Quest’ultima è riuscita tuttavia a revocare alcuni di questi contratti (come quello della Shell per i giacimenti di Sakhalin, per ragioni ecologiche) e limitare gli investimenti stranieri per le future concessioni.

I termini dei contratti PSA previsti in Iraq con le grandi compagnie, in virtù del menzionato progetto di legge, eleveranno la parte spettante alle compagnie ad un livello situato tra il 60 e il 70% degli introiti durante il periodo degli ammortamenti, che sarebbe di 40 anni, e le compagnie intascheranno il 20% dei profitti in questo periodo. Per stabilire un livello di paragone, il contratto PSA che Saddam Hussein negoziò con la Total nel 1992 — e che non fu applicato per via dell’embargo — per lo sfruttamento del giacimento gigante di Majnun era del 40% e 10%, per un periodo di ritorno dell’investimento di 20 anni, il che corrisponde alla media dei contratti PSA.

La giustificazione ufficiale per le condizioni anormalmente vantaggiose per le compagnie, secondo il progetto di legge, è la questione della sicurezza in Iraq. Desiderose di proteggere il loro personale, le compagnie esigono solide garanzie quanto sul ritorno sugli investimenti. Si dà il caso che la escalation militare organizzata da George W. Bush peggiorò la situazione della sicurezza, e rinforzò gli argomenti che le compagnie impugnano per esigere margini di guadagno sempre più stravaganti.

E’ inoltre interessante segnalare che BearingPoint sostiene di realizzare il suo lavoro tenendo in conto il picco petrolifero. In effetti, per le grandi compagnie petrolifere, firmare ora questi contratti PSA in un paese come l’Iraq costituisce la garanzia di poter mantenere la testa fuori dall’acqua dopo il principio del declino globale, e aiuta a mantenere a galla le economie nazionali dei rispettivi paesi. A questo punto gli interessi delle compagnie petrolifere anglosassoni coincidono con quelle dei paesi membri della coalizione.

Inoltre, i ritorni degli investimenti calcolati secondo la proporzione degli introiti del petrolio priveranno l’economia irachena di miliardi di petrodollari nella misura in cui in prezzi del greggio aumenteranno, aumento che già costituisce una certezza per il futuro per via del picco della produzione. Seguendo l’abituale copione, gli introiti petroliferi che rimarranno al paese produttore serviranno, in gran parte, a pagare i contratti che Halliburton ed altri gonfieranno, per la costruzione di infrastrutture civili, ed al pagamento dei debiti.

Cosa accadrà con i miliardi di plusvalenze provenienti da rialzi del prezzo al barile? Naturalmente, la legge irachena sugli idrocarburi ha previsto che possano rimanere in mani straniere, contrariamente al altre legislazioni sul petrolio che stipulano che siano reinvestiti nell’economia nazonale del paese produttore. Il capitolo intitolato "Regime fiscale" dispone che "le compagnie straniere non sono sottomesse a nessuna restrizione quanto ai profitti realizzati nel paese, e non sono sottoposte a nessuna imposta per esse".

Inoltre, tutto il contenzioso tra lo stato iracheno ed una compagnia straniera dovrà essere sottoposto all’arbitraggio di una corte internazionale. Di fatto, nel caso che il governo iracheno chieda un rendiconto per i carichi fantasma che stanno regolarmente uscendo d Bassora dal periodo dell’embargo ONU, la "comunità internazionale" si riserva il diritto di svolgere il ruolo di giudice, quando è essa stessa che guadagna da questi carichi, e se così non fosse avrebbe già predisposto un sistema di misurazione. Infine, degli 80 giacimenti scoperti in Iraq, solo 17 rimarranno sotto il controllo maggioritario dello stato centrale iracheno, dal momento dell’approvazione di questa legge.

Finora, diversi tipi di ostacolo si oppongono all’adozione della legge nell’Assemblea Nazionale irachena. Alla resistenza dei sindacati, precedentemente menzionata, si unisce la reticenza della minoranza curda nel nord dell’Iraq (seconda regione produttrice di petrolio del paese, dopo il sud a maggioranza sciita) che aspira ad amministrare le sue risorse petrolifere in modo autonomo. In funzione di ciò, le autorità curde hanno già concesso vari contratti di ripartizione della produzione e hanno annunciato persino la creazione di un proprio ministero del Petrolio, sotto lo sgardo benevolo delle potenze occupanti, che dicono, tuttavia, di desiderare l’unità del paese e che la rendita petrolifera venga distribuita. Dopo aver ricevuto la promessa di una rapida emancipazione in cambio della loro collaborazione con gli occupanti, i Curdi si rendono conto — un po’ tardi — che invece di dividere la rendita petrolifera con i loro compatrioti sciiti e sunniti, dovranno cederne buona parte alle compagnie occidentali, prospettiva che non li rende esattamente felici.

Inoltre George W. Bush, per quanto non voglia ritirare le truppe, non vuole neanche esporle maggiormente. Desidera semplicemente imporre una privatizzazione degli introiti petroliferi ad uno stato iracheno in situazione di debolezza e sotto la minaccia delle baionette, per poi ordinare alle sue truppe di ritirarsi in basi permanenti, secondo il "modello coreano" frequentemente menzionato da Washington negli ultimi tempi. Ma prima i parlamentari iracheni devono decidere il destino della loro economia nazionale per i prossimi 40 anni. Attorno ad essi, per aiutarli a decidere, si mantengono 120.000 soldati statunitensi ed una cifra equivalente di mercenari armati fino ai denti, pronti a proclamare il compimento della seconda missione della Coalizione del Petrolio in Iraq.

La prima consisteva nel rovesciare, tramite il ristabilimento del dollaro come moneta utilizzata nelle transazioni petrolifere, il movimento che Saddam Hussein e Hugo Chávez avevano iniziato all’intero dell’OPEC, e salvare così l’economia statunitense. La seconda consiste nel garantire per 40 anni come minimo, e pertanto al di là del picco del petrolio, il monopolio delle compagnie occidentali sul petrolio iracheno e allegerire così lo spostamento del potere petrolifero verso i paesi del Medio Oriente.

Tradotto da Gianluca Bifolchi (Tlaxcala).