Avrebbero voluto festeggiare l’inizio delle attività sul suolo africano. Ma i responsabili di Africom, il nuovo comando per l’Africa creato dal dipartimento alla difesa e operativo da ieri, hanno dovuto brindare sul freddo suolo di Stoccarda, in Germania, dove la struttura ha dovuto mantenere suo malgrado il proprio quartier generale. Nato con l’obiettivo dichiarato di «razionalizzare la gestione esistente» - finora i paesi africani ricadevano nella giurisdizione di tre comandi diversi - e quello meno confessabile di controllare le riserve petrolifere del continente e contrastare l’avanzata cinese nelle nuova lotta per le risorse, Africom ha infatti conosciuto un progressivo e inarrestabile ridimensionamento.

La sua creazione era stata annunciata già nel febbraio dell’anno scorso, con grandi obiettivi per un futuro glorioso. «La base di Africom sarà stabilita sul suolo africano», aveva detto il generale William «Kip» Wald, ex responsabile delle truppe Usa in Bosnia e vice-comandante del comando europeo, nominato a dirigere la nuova creatura anche e soprattutto in virtù delle sue origini afro-americane. «Dall’ottobre 2008, il comando Africom sarà stabilito in Africa», gli aveva fatto eco Jendayi Frazer, sotto-segretaria di stato per gli affari africani. Al dipartimento di stato e a quello della difesa non sembravano avere dubbi: i paesi africani faranno a gara per avere sul proprio suolo la base di Africom. Poi, di fronte a un fuoco di fila di rifiuti, hanno dovuto pian piano ricredersi, finendo infine per ammettere - qualche mese fa, quando la situazione era ormai definitivamente compromessa che «per il momento» la base di Africom sarebbe rimasta in Germania. A dare il via la coro di critiche è stato il Sudafrica, che per bocca del suo ministro della difesa aveva affermato che i paesi africani «si oppongono alla creazione di un comando unificato sul continente».

La posizione di Pretoria è stata poi assunta da tutta la Southern Africa Development Community (Sadc), l’organizzazione regionale che riunisce 14 paesi dell’Africa australe. A stretto giro di posta, era seguito il niet di altri stati di peso, come l’Algeria, la Libia, la Nigeria. Tutti paesi che non solo hanno escluso la possibilità che la base di Africom potesse nascere sul proprio suolo, ma hanno anche esercitato una «moral susion» sulle rispettive aree di influenza. Così sia la Cen-Sad - la comunità di 25 stati sahelo-sahriani creata e guidata da Tripoli - che la Cedeao/Ecowas (la comunità economica dell’Africa Occidentale in cui la Nigeria ha un ruolo predominante), si sono schierate ufficialmente contro la nascita di Africom in Africa. Alla fine solo un paese - la Liberia di Ellen Johnson-Sirleaf, che identificava nella creazione del comando un’opportunità per vedersi ricostruire il paese dagli amici a stelle e strisce - si è offerto di ospitare la base. Ma la carenza di infrastrutture in un paese uscito solo di recente da una devastante guerra civile, oltre alla contrarietà degli stati vicini, hanno spinto il comando a rifiutare l’offerta di Monrovia. Qualche mese fa, gli anti-Africom avevano ottenuto un inatteso supporto dall’ex presidente della Banca Mondiale, ex vice-segretario alla difesa e «falco» impenitente della prima amministrazione Bush Paul Wolfowitz. «Non sono affatto convinto che Africom, la cui creazione mi ha colto di sorpresa, sia una buona idea. Posso capire perfettamente che gli africani, che non hanno certo dimenticato il nostro appoggio in passato a dittatori come Mobutu, esprimano una resistenza alla presenza di soldati americani sul proprio suolo», aveva affermato l’architetto della guerra all’Iraq.

A quelle di Wolfowitz erano seguite le critiche di alcuni rappresentanti democratici, che anche loro si interrogavano sull’utilità del nuovo comando e, soprattutto, chiedevano conto di spese e prospettive future. «Sembra che stiamo creando Africom per proteggere il petrolio e combattere i terroristi, con lo stesso errato procedimento con cui siamo andati a combattere terroristi in altre parti del mondo», ha denunciato Stephen Lynch, deputato democratico del Massachusetts. In effetti, nessuno sembra avere dubbi sulle reali intenzioni di Africom: rafforzare la presenza militare in un continente sempre più importante dal punto di vista geo-strategico.

Lo aveva già annunciato il vice-presidente Dick Cheney nel suo National Energy Policy del maggio 2001: le importazioni americane di petrolio dal Golfo di Guinea devono aumentare progressivamente e sostituire le provvigioni da parte di paesi inaffidabili e poco amichevoli, come il Venezuela di Chavez. Cosa che da allora è puntualmente avvenuta, anche se non con il ritmo auspicato dal vice di Bush: le importazioni di greggio dal West Africa sono passate dal 10 per cento del 2001 all’attuale 15 per cento. Anche Africom si inseriva in questo disegno complessivo: stabilire rapporti militari integrati con i paesi produttori e battere sul tempo la Cina nella lotta per accaparrarsi il greggio africano. Lo schiaffo continentale alla nascita della base non è un buon segno per le prospettive future di Washington a sud del Mediterraneo.

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AFRICOM’s Dilemma : The "Global War on Terrorism" "Capacity Building," Humanitarianism, and the Future of U.S. Security Policy in Africa


(PDF - 347.9 kio)

Africa Command : U.S. Strategic Interests and the Role of the U.S. Military in Africa (US Congressional Research Service)


(PDF - 544.1 kio)