I bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki non rispondevano a una strategia militare. Il Giappone aveva già intenzione di capitolare. Gli Stati Uniti volevano solo che i giapponesi si arrendessero a loro invece che ai sovietici, che già cominciavano a dilagare in Manciuria.

In Europa, eccetto che in Jugoslavia, la pace regna dalla fine della seconda guerra mondiale, ossia da 77 anni. Per gli europei la guerra era ricordo lontano, ed ecco che con orrore la riscoprono in Ucraina. Gli africani della regione dei Grandi Laghi, poi gli abitanti della ex Jugoslavia, poi i mussulmani, dall’Afghanistan alla Libia, passando per il Corno d’Africa, li osservano con disgusto: per lunghi decenni gli europei hanno ignorato le loro sofferenze e li hanno accusati di essere responsabili delle proprie disgrazie.

Secondo alcuni la guerra di Ucraina è iniziata con il nazismo; secondo altri, otto anni fa; nella coscienza degli Occidentali dura da appena due mesi. Prendono atto solo in parte delle sofferenze causate dalla guerra, tuttora incapaci di percepirne tutti gli aspetti. Soprattutto, erroneamente, interpretano la guerra attuale basandosi sull’esperienza dei bisnonni e non su quanto vivono personalmente.

Le guerre non sono altro che sequele di crimini

 Non appena innescata, la guerra mette al bando le sfumature. Intima a tutti di schierarsi per uno dei due campi. Chi non ubbidisce viene immediatamente stritolato dalla duplice mandibola della bestia.
 L’abolizione delle sfumature costringe a riscrivere gli avvenimenti. Ci sono solo i “buoni”, cioè noi, e i “cattivi”, cioè gli altri. La propaganda di guerra è talmente poderosa che nessuno è più in grado all’istante di distinguere i fatti dalla loro descrizione. Siamo immersi nell’oscurità e non sappiamo come fare luce.
 La guerra infligge sofferenze e semina morte senza distinzioni. Non importa da quale parte si è schierati, non conta se si è colpevoli o innocenti. Si soffre e si muore non solo perché colpiti dall’avversario, ma anche per i danni collaterali causati dal campo amico. La guerra non significa soltanto sofferenza e morte, significa anche ingiustizia, che si fa più fatica a tollerare.
 Nessuna regola delle nazioni civilizzate resiste. Molti soccombono alla follia e non agiscono più da esseri umani. Non esiste più un’autorità che metta ciascuno di fronte alle conseguenze del proprio agire. Non si può più contare sulla maggior parte delle persone. L’uomo è diventato lupo per l’uomo.

Accade allora qualche cosa di affascinante: se alcuni si trasformano in belve crudeli, altri s’illuminano e il loro sguardo ci rischiara.

Ho passato dieci anni sui campi di battaglia senza mai rientrare nel mio Paese. E oggi, che rifuggo sofferenza e morte, continuo a essere irresistibilmente attratto da questi sguardi illuminanti: detesto la guerra, ma al tempo stesso mi manca. Perché in questo groviglio di orrori brilla sempre una forma sublime di umanità.

Le guerre del XXI secolo

Ora vorrei esporvi alcune riflessioni che non v’impegnano in questo o quest’altro conflitto, tanto meno in questo o quest’altro schieramento in campo. Voglio solo sollevare il velo e invitarvi a guardare cosa nasconde. Ciò di cui sto per parlare forse vi turberà, ma la pace è possibile solo se si accetta la realtà.

Le guerre evolvono. Non sto parlando di armi e strategie militari, ma delle ragioni dei conflitti, della loro dimensione umana. La transizione dal capitalismo industriale alla globalizzazione finanziaria trasforma le società e polverizza i principi su cui si fondava la loro organizzazione, cambiando anche le guerre. Ne deriva che, se siamo incapaci di adattare le nostre società a questo cambiamento strutturale, a maggior ragione siamo incapaci di capire l’evoluzione della guerra.

 La guerra interviene sempre per risolvere problemi che la politica non è riuscita a sormontare. Non arriva perché siamo pronti a scatenarla, ma perché abbiamo scartato ogni altra soluzione.

Ed è proprio quanto sta accadendo oggi. Gli Straussiani statunitensi hanno messo in difficoltà la Russia in Ucraina e non le hanno lasciato altra scelta che entrare in guerra. Se gli Alleati s’intestardiranno a mettere alle strette la Russia provocheranno una guerra mondiale.

I periodi di transizione che costringono a ripensare i rapporti umani propiziano questo genere di catastrofe. Alcuni continuano a ragionare secondo principi efficaci un tempo, ma non più adeguati alla realtà. Questo non impedisce loro di andare avanti comunque, rischiando di causare guerre senza volerlo.

Nella notte del 9 maggio 1945 l’aviazione statunitense bombardò Tokyo. In una sola notte vennero uccise oltre centomila persone e oltre un milione rimasero senza tetto. È il più grande massacro di civili della storia.

 Se in tempo di pace si distinguono i civili dai militari, nelle guerre moderne questa separazione non ha senso. Le democrazie hanno spazzato via l’organizzazione delle società in caste o in ordini. Chiunque può diventare combattente. La chiamata massiccia alle armi e le guerre totali hanno rimescolato le carte. Ora i civili comandano i militari: i civili non sono più vittime innocenti, ma sono i primi responsabili della catastrofe generale, di cui i militari non sono che esecutori.

Nel Medio Evo occidentale la guerra era faccenda esclusiva di nobili. In nessun caso le popolazioni vi prendevano parte. La Chiesa cattolica aveva promulgato leggi per limitare l’impatto della guerra sui civili. Ma tutto questo non ha rispondenza con quanto stiamo vivendo, ove non trova alcun fondamento.

Anche l’uguaglianza uomo-donna ha rovesciato i paradigmi. Oggi le donne non solo sono soldati, possono essere anche comandanti civili: il fanatismo non è più appannaggio esclusivo del sesso cosiddetto forte. Alcune donne si dimostrano più pericolose e crudeli di certi uomini.

Non siamo consapevoli di questi mutamenti. E se lo siamo non ne traiamo le dovute conclusioni. Ne conseguono posizioni singolari, come il rifiuto degli Occidentali di rimpatriare le famiglie degli jihadisti, cui hanno consentito di andare sui campi di battaglia, nonché di giudicarli. Si sa che molte di queste donne sono più fanatiche dei propri compagni e che costituiscono un pericolo ben più grande. Ma nessuno lo dice. Si preferisce pagare mercenari curdi per tenerle il più lontano possibile, rinchiuse con i figli in campi di concentramento.

Solo i russi hanno rimpatriato questi figli, pure già contaminati dall’ideologia jihadista. Li hanno affidati ai nonni, nella speranza che costoro riescano ad amarli e a educarli.

Da due mesi stiamo accogliendo civili ucraini che fuggono dai combattimenti. Sono donne e bambini che soffrono, quindi non prendiamo precauzioni. Eppure un terzo di questi ragazzi sono stati educati nei campi di vacanza dei banderisti, dove hanno imparato a maneggiare armi e ad ammirare il criminale contro l’umanità Stepan Bandera.

Campo di vacanza in Ucraina secondo un quotidiano atlantista.
Fonte: Le Monde (2016).

 Le Convenzioni di Ginevra non sono che vestigia di quando ragionavamo come esseri umani. Non si addicono ad alcuna realtà odierna. Chi le applica non lo fa perché obbligato, ma perché spera in questo modo di preservare la propria umanità e di non sprofondare in un abisso di crimini. La nozione di «crimine di guerra» non ha senso perché lo scopo della guerra è commettere una serie di crimini per ottenere quanto non si è riusciti a ottenere con mezzi civilizzati; per tacere che in democrazia ogni elettore è responsabile.

Un tempo la chiesa cattolica aveva bandito strategie che prendevano di mira i civili, per esempio l’assedio delle città, e previsto la scomunica per chi vi trasgrediva. Ma oggi non esiste un’autorità morale che faccia rispettare le regole e nessuno è scioccato dalle “sanzioni economiche” che colpiscono intere popolazioni, al punto da causare carestie mortali, come accadde in Corea del Nord.

Visto il tempo che impieghiamo a trarre le conclusioni dai nostri atti, insistiamo a considerare vietate alcune armi da noi stessi utilizzate. Per esempio, il presidente Barack Obama aveva spiegato che l’uso di armi chimiche o biologiche è una linea rossa da non oltrepassare, ma il suo vicepresidente Joe Biden ha creato in Ucraina una rete di laboratori di ricerca di armi di questo genere. La sola nazione che vieta a se stessa l’uso di qualsiasi arma di distruzione di massa è l’Iran; lo ha fatto dopo la condanna morale di questo tipo di armi da parte dell’imam Ruhollah Khomeini. Eppure accusiamo proprio gli iraniani di voler fabbricare la bomba atomica.

 In passato si dichiaravano le guerre per conquistare territori. Alla fine si firmava un trattato di pace che modificava le mappe. Al tempo dei social network la posta in gioco è più ideologica che territoriale. La guerra non può che finire con il discredito che si abbatte su un modo di pensare. Benché sia accaduto che dei territori siano passati di mano, nessuna guerra recente è terminata con trattati di pace e riparazioni di guerra e solo alcune si sono concluse con armistizi.

È evidente che, nonostante il discorso che domina in Occidente, la guerra in Ucraina non è territoriale, bensì ideologica. D’altronde il presidente Volodymyr Zelensky è il primo capo di guerra della storia a esternarsi ripetutamente ogni giorno. Passa molto più tempo a parlare che a comandare le forze armate. Costruisce i suoi interventi attorno a riferimenti storici. Noi reagiamo ai ricordi evocati e non ci occupiamo di quanto non capiamo. Rivolgendosi agli inglesi, Zelensky parla come Churchill e viene applaudito; rivolgendosi ai francesi, Zelensky rievoca Charles De Gaulle e viene applaudito; e via dicendo… Conclude sempre il discorso con «Gloria all’Ucraina!». Gli occidentali non capiscono a cosa alluda il motto, ma lo trovano azzeccato.

Chi conosce la storia dell’Ucraina vi riconosce il grido di guerra dei banderisti. Quello che urlavano massacrando 1,6 milioni di concittadini, di cui almeno un milione ebrei. Ma come potrebbe un ucraino esortare a massacrare altri ucraini e un ebreo esortare a massacrare altri ebrei?

La nostra ingenuità ci rende ciechi.

Per la prima volta in un conflitto, una delle parti ha censurato i media nemici ancora prima che la guerra avesse inizio: in Unione Europea RT e Sputnik sono state chiuse preventivamente perché avrebbero potuto contestare quanto stava per accadere. Dopo i media russi, s’inizia a censurare anche media di opposizione. In Polonia, il sito Voltairenet.org è censurato da un mese per decisione del Consiglio di Sicurezza nazionale.

 La guerra non si fa più solo sul campo di battaglia. È indispensabile conquistare gli spettatori. Durante la guerra di Afghanistan il presidente statunitense George W. Bush e il primo ministro britannico Tony Blair valutarono la possibilità di distruggere la televisione satellitare Al-Jazeera, non perché avesse influenza sui belligeranti, ma perché faceva riflettere gli spettatori del mondo arabo.

Dopo la guerra del 2003 in Iraq, ricercatori francesi ipotizzarono che la guerra tradizionale si sarebbe tramutata in guerra cognitiva. Sebbene la fanfaluca delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein abbia resistito pochi mesi, il modo in cui Stati Uniti e Regno Unito riuscirono a spacciarla per veritiera era perfetto. Ai cinque ambiti d’intervento (aria, terra, mare, spazio e cibernetica) la Nato ne ha aggiunto un sesto: il cervello umano. Se l’Alleanza cerca, per il momento, di non scontrarsi con la Russia nei primi quattro ambiti, è già in guerra negli altri due.

Man mano che le sfere d’intervento si allargano, la nozione di belligerante sbiadisce. Lo scontro non è più fra uomini, ma fra sistemi di pensiero. La guerra quindi si globalizza. Durante la guerra di Siria, oltre sessanta Stati, che non avevano alcun rapporto con il conflitto, inviarono armi; oggi una ventina di Stati inviano armi in Ucraina. Siccome non capiamo gli avvenimenti in diretta, ma li interpretiamo con i parametri del vecchio mondo, abbiamo creduto che le armi occidentali fossero usate dall’opposizione democratica siriana, sebbene fossero destinate agli jihadisti; così oggi siamo convinti che le armi vadano all’esercito ucraino invece che ai banderisti.

L’inferno è lastricato di buone intenzioni.

Traduzione
Rachele Marmetti