Secondo il quotidiano di Bruxelles Le Soir, gli inquirenti belgi hanno aperto un nuovo filone nella vicenda della corruzione al parlamento europeo: il Premio Sakharov per la libertà di pensiero.
Istituito nel 1988 su proposta del francese Jean-François Deniau, il Premio Sakharov, dal nome del celebre dissidente sovietico, è stato riformato in profondità nel 2003: oggi viene assegnato solo a personalità sostenute dagli Stati Uniti.
Il premio viene attribuito per «contributo eccezionale in uno dei seguenti ambiti:
– difesa dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in particolare del diritto alla libertà di espressione,
– protezione dei diritti delle minoranze,
– rispetto del diritto internazionale,
– sviluppo della democrazia e attuazione dello stato di diritto».
Le candidature sono presentate da deputati europei, i finalisti vengono successivamente selezionati dai membri della Commissione Esteri, infine il vincitore viene scelto dalla Conferenza dei presidenti del parlamento europeo.
Il parlamento europeo consegna al vincitore la somma di 50 mila euro.
Sembra che nel 2021 le candidature della saharawi Sultana Khaya e della boliviana Jeanine Áñez siano state scartate a favore di quella del russo Alexei Navalny, grazie a mazzette versate a deputati della Commissione Esteri. Se è chiaro che il Marocco aveva interesse a far saltare la candidatura di Sultana Khaya, non si sa chi abbia fatto eliminare quella di Jeanine Áñez.
Si noti che la presentazione in Occidente di Alexei Navalny come «principale oppositore al dittatore Putin» non ha danneggiato nessuno, tranne le persone cui è stato sottratto il premio. Si noti anche che avrebbe potuto andare peggio: la candidata arrivata in seconda posizione, la presidente Jeanine Áñez ha fatto un colpo di Stato appoggiandosi agli emigrati ustascia croati [1].
Nel 2022, in piena guerra civile, mentre la Russia interveniva militarmente per far applicare la risoluzione 2202 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il premio Sakharov è stato assegnato al «Popolo ucraino».
[1] “Bolivia, laboratorio di una nuova strategia di destabilizzazione”, di Thierry Meyssan, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 26 novembre 2019.
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