Antony Blinken è stato educato a Parigi da un uomo eccezionale, l’avvocato Samuel Pisar. A scuola è stato compagno di classe di Robert Malley. Rientrato negli Stati Uniti è diventato neoconservatore. Concepisce i Diritti dell’uomo come arma e intende esigerne il rispetto da parte di tutt’i Paesi, tranne che dal proprio.

L’amministrazione Biden compie i primi atti nelle relazioni internazionali.

Per prima cosa il segretario di Stato, Antony Blinken, partecipa a numerose riunioni internazionali in videoconferenza, assicurando ogni volta gl’interlocutori che «l’America è di ritorno». Gli Stati Uniti riprendono infatti posto in tutte le organizzazioni intergovernative, a cominciare dalle Nazioni Unite.

Le Nazioni Unite

Dopo aver assunto l’incarico, il presidente Joe Biden ha annullato il ritiro degli USA dall’Accordo di Parigi e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Poco dopo, Antony Blinken annunciava che il Paese avrebbe aderito al Consiglio per i diritti dell’uomo e ne sollecitava la presidenza. Blinken fa di meglio: fa campagna perché soltanto gli Stati giudicati dagli USA rispettosi dei diritti umani possano sedere nel Consiglio.

Sono decisioni che sollecitano diverse osservazioni:

Accordi di Parigi

 Il ritiro degli Stati Uniti dagli Accordi di Parigi si è fondato sul fatto che i lavori del Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC, Intergovernmental Panel on Climate Change) non sono assolutamente scientifici, bensì politici; si tratta infatti di un’assemblea di alti funzionari, affiancati da consiglieri scientifici. Molte le promesse, ma un unico risultato concreto: l’adozione di un diritto internazionale a inquinare, gestito dalla Borsa di Chicago, organismo creato dal vicepresidente Al Gore, i cui statuti furono redatti dal futuro presidente Barack Obama. L’amministrazione Trump non ha mai contestato l’evoluzione climatica, bensì sostenuto che le cause potrebbero essere diverse dall’emissione industriale di gas a effetto serra, per esempio quelle enunciate dalla teoria geofisica di Milutin Milanković.
 Il rientro degli Stati Uniti negli Accordi di Parigi preoccupa le imprese statunitensi di gas e petrolio di scisto, nonché i lavoratori del settore. Basti un esempio: l’amministrazione Biden è fermamente decisa a vietare l’uso di vetture a benzina; la scelta avrà conseguenze non soltanto sui posti di lavoro, ma anche sulla politica estera degli Stati Uniti, dal momento che sono diventati i primi esportatori mondiali di petrolio.

OMS

 Il ritiro degli Stati Uniti dall’OMS è stato motivato dal ruolo primario che vi svolge la Cina. L’attuale direttore generale, dott. Tedros Adhanom Ghebreyesus, è membro del Fronte di liberazione del popolo del Tigrè (filocinese). Inoltre Ghebreyesus, parallelamente all’incarico all’ONU, ha giocato un ruolo centrale nel rifornimento di armi ai ribelli del Tigrai.
 La delegazione dell’OMS, che ha condotto a Wuhan l’inchiesta sulla possibile origine cinese del Covid-19, era composta da un solo statunitense, il dott. Peter Daszak, presidente dell’ONG EcoHealth Alliance. Ebbene, questo esperto ha finanziato ricerche su coronavirus e pipistrelli del laboratorio P4 di Wuhan. Daszak è perciò allo stesso tempo giudice e parte in causa.

Consiglio per i diritti umani

 Il ritiro degli Stati Uniti dal Consiglio per i diritti umani è conseguenza della denuncia da parte dell’amministrazione Trump della sua ipocrisia. Nel 2011 il Consiglio fu di fatto usato dagli Stati Uniti per ascoltare falsi testimoni e accusare il «regime di Gheddafi» di aver bombardato un quartiere orientale di Tripoli, fatto mai accaduto. La memorabile messinscena fu trasmessa al Consiglio di Sicurezza, che adottò una risoluzione che autorizzava gli Occidentali a «proteggere» la popolazione libica dall’infame dittatore. Alla luce del successo di quest’operazione propagandistica, molte ONG hanno a loro volta tentato di strumentalizzare il Consiglio, in particolare contro Israele.
 Le Nazioni Unite non attribuiscono all’espressione “diritti umani” lo stesso valore degli Stati Uniti, per i quali i diritti umani sono semplicemente una protezione dalla Ragione di Stato, che comporta il divieto della tortura. Per le Nazioni Unite la locuzione include anche il diritto alla vita, all’educazione, al lavoro e così via.
 La Cina, che ha ancora molta strada da compiere in materia di giustizia, ha però un bilancio eccezionalmente positivo nel settore educativo. Ha perciò diritto a sedere nel Consiglio, benché Washington lo contesti.
Blinken ha recentemente enunciato la «giurisprudenza Khashoggi»: non concedere il visto ai dirigenti politici di Stati che non rispettano i diritti umani degli oppositori. Ma che valore può avere questa dottrina dettata dagli Stati Uniti, Paese che dispone di un gigantesco servizio di uccisioni mirate, utilizzato talvolta anche contro i propri concittadini?

L’Iran e il futuro del Medio Oriente Allargato

L’amministrazione Biden sta peraltro negoziando il rientro nell’accordo sul nucleare 5+1 con l’Iran. Si tratta di riprendere le trattative che William Burns, Jake Sullivan e Wendy Sherman iniziarono nove anni fa, a Oman, con gli emissari dell’ayatollah Ali Khamenei. Ebbene, questi personaggi oggi ricoprono rispettivamente l’incarico di direttore della CIA, di consigliere per la Sicurezza nazionale e di vicesegretario di Stato.

All’epoca Washington voleva, nell’ambito della “guerra senza fine” (strategia Rumsfeld/Cebrowski), eliminare il presidente Mahmoud Ahmadinejad e rilanciare lo scontro sciiti/sunniti. La Guida Khamenei voleva invece sbarazzarsi di Ahmadinejad, che aveva osato disattenderne gli ordini, e allargare il proprio potere sull’insieme degli sciiti della regione.

I negoziati sfociarono nella manipolazione delle elezioni presidenziali iraniane del 2013 e nella vittoria dello sceicco Hassan Rohani, filoisraeliano. Costui, appena dopo aver assunto l’incarico, inviò il ministro degli Esteri, Mohammad Djavad Zarif, a negoziare in Svizzera con il segretario di Stato John Kerry e con il suo consigliere Robert Malley. Si trattava di suggellare davanti a testimoni il dossier del nucleare militare iraniano, che tutti sapevano concluso da molto tempo. Seguì un anno di negoziati bilaterali segreti sul ruolo regionale dell’Iran, chiamato a rioccupare la funzione di gendarme del Medio Oriente svolta sotto lo scià Reza Pahlavi. Alla fine, l’accordo sul nucleare fu firmato in pompa magna.

Ma a gennaio 2017 gli Stati Uniti elessero Trump, che rimetteva in discussione l’accordo. Il presidente Rohani fece allora pubblicare il progetto che aveva in serbo per gli Stati sciiti, nonché alleati (Libano, Siria, Iraq e Azerbaijan): federarli in un grande impero sotto l’autorità della Guida della Rivoluzione, ayatollah Khamenei. È perciò su questa nuova base che l’amministrazione Biden oggi deve negoziare.

Ma gli Stati Uniti non possono prendere posizione sul Medio Oriente Allargato senza prima aver deciso quale atteggiamento assumere nei confronti delle rivali, la Russia e la Cina. Il dipartimento della Difesa ha designato una Commissione che è al lavoro sulla questione e che formulerà le proprie raccomandazioni a giugno.

Nel frattempo, il Pentagono intende continuare a fare quel che fa da vent’anni: la “guerra senza fine”, il cui obiettivo è distruggere tutte le strutture statali della regione, siano esse amiche o nemiche: è fuori questione accettare aprioristicamente il progetto Rohani.

Washington ha avviato i contatti a novembre, ossia tre mesi prima dell’inizio del mandato di Biden. È esattamente quanto ha fatto l’amministrazione Trump con la Russia, ricavandone azioni giudiziarie ai sensi della legge Logan. Le cose adesso andranno diversamente: non ci saranno noie giudiziarie, dal momento che l’amministrazione Biden è unanimemente sostenuta dai maggiorenti di Washington.

Del resto, i negoziati fra Iran e Stati Uniti si svolgono all’orientale. Teheran e Washington trattengono ostaggi per garantirsi mezzi di pressione. Entrambi fermano spie, o, in mancanza, semplici turisti, e li imprigionano per la durata di un’inchiesta che si trascina nel tempo. Non si può non constatare che i prigionieri sono trattati meglio in Occidente che in Iran, dove sono sottoposti a una pressione psicologica costante.

Tanto per cominciare, Washington ha confermato le sanzioni contro l’Iran, ma ha tolto quelle contro gli houthi in Yemen. E ha chiuso gli occhi sul canale sud-coreano che permette all’Iran di aggirare l’embargo. Ma non è stato abbastanza.

Dal 15 al 22 febbraio l’Iran ha lanciato – tramite sicari iracheni ¬– azioni di commando contro le forze e società USA in Iraq; un modo per dimostrare che la sua presenza è più che legittima nel Paese, ma che non lo è quella dello Zio Sam.

Gli israeliani hanno da parte loro accusato l’Iran di aver provocato il 25 febbraio, nel Golfo di Oman, un’esplosione su una nave cisterna di una loro società.

La segreteria di Stato ha risposto mandando il Pentagono a bombardare postazioni utilizzate da milizie sciite in Siria; un modo per dimostrare che gli Stati Uniti occupano illegalmente un Paese, le cui autorità subiscono l’aiuto settario iraniano – oggi l’Iran non va in soccorso di tutti i siriani, ma dei soli siriani sciiti – e che bisognerà farsene una ragione.

La Cina

La posizione dominante degli Stati Uniti non è minacciata dalla Cina in sé, ma dal suo sviluppo. Nonostante tutto il suo cinismo, Washington non è in vena di giocare al colonialismo in stile britannico e di condannare i cinesi alla fame. La logica suggerirebbe di stabilire con la “fabbrica del mondo” norme che regolino la concorrenza. È fattibile, come ha dimostrato il presidente Trump, ma non si farà perché la classe dirigente attuale trae un profitto personale immenso da questi scambi ineguali. Lo stesso segretario di Stato, Blinken, non ha forse istituito il gabinetto WestExec Advisor per introdurre le multinazionali USA presso il Partito comunista cinese?

In realtà rimane un’unica possibilità: fare in modo che l’economia USA affondi il più lentamene possibile e contenere la potenza militare e politica cinese in una zona d’influenza delimitata.

Per questa ragione, il presidente Biden, nella prima conversazione telefonica con il presidente Xi Jinping, l’ha rassicurato che non avrebbe messo in discussione l’appartenenza del Tibet, di Hong Kong e persino di Taiwan alla Repubblica Popolare di Cina. Ha tuttavia fatto capire che contesta tuttora il diritto della Cina a riprendersi la sovranità, antecedente la colonizzazione europea, su tutto il Mar della Cina. Continueranno quindi a minacciarsi reciprocamente per le isole Spratly e altri isolotti abbandonati.

Beijing non se ne preoccupa: prosegue lo sforzo per far uscire dal sottosviluppo i cinesi dell’interno del Paese. Domani la tigre tirerà fuori gli artigli, ma la Cina sarà già posizionata lungo le nuove vie della seta. Nessuno potrà intimidirla.

La Russia

I russi sono un caso a parte. Sono un popolo capace di patire le più dure privazioni: preserva una coscienza collettiva che ogni volta gli consente di rinascere. Ha una mentalità incompatibile con quella delle élite anglosassoni, sempre pronte a commettere atrocità pur di conservare il proprio livello di vita. Sono due concezioni opposte dell’onore: l’una basata sulla fierezza di quanto fatto, l’altra sulla gloria della vittoria.

Persino dopo trent’anni dal crollo dell’Unione Sovietica e dopo la conversione al capitalismo, per le élite anglosassoni la Russia continua a rappresentare un nemico ontologico; è la prova che i diversi sistemi economici non erano che un pretesto per lo scontro.

Così, checché ne dicano gli ufficiali del Pentagono, una guerra con la Cina non è in programma, se non in un futuro lontano; però gli Stati Uniti si tengono sin d’ora pronti allo scontro con la Russia. Il primo bombardamento del mandato Biden è stato in Siria, come visto. In virtù degli accordi per un contenimento conflittuale, lo stato-maggiore USA ha avvertito anticipatamente l’omologo russo. Ma lo ha fatto soltanto cinque minuti prima del bombardamento, per impedire a Mosca di avvertire Damasco. Ma quel che più conta è che non sono state prese misure per evitare di ferire, persino di uccidere, soldati russi.

Gli Stati Uniti non possono accettare il ritorno della Russia in Medio Oriente; un ritorno che paralizza parzialmente la “guerra senza fine”.

Traduzione
Rachele Marmetti