Proseguendo l’analisi dell’Iran contemporaneo, Thierry Meyssan mostra come Teheran abbia abbandonato l’ideale antimperialista della rivoluzione del 1979 per tornare alla politica imperialista. Quest’articolo, come il precedente, presenta numerosi elementi disconosciuti e si addentra in una sorprendente ipotesi.
L’articolo è il seguito di:
«L’Iran imperialista diventa antimperialista», Thierry Meyssan, Rete Voltaire, 4 agosto 2020.
La gioventù che ha versato il sangue per il Paese entra in età matura. Nel 2005 un ex ufficiale delle Forze Speciali dei Guardiani della Rivoluzione, Mahmoud Ahmadinejad, 51 anni, è eletto presidente della Repubblica. Come Khomeini, è in rapporti conflittuali con il clero, tanto più che quest’ultimo durante la guerra ha protetto soltanto i propri figli. Il neo-presidente vuole riprendere la lotta all’ingiustizia e modernizzare il Paese. Ingegnere di formazione e docente di tecnologia, attrezza l’Iran di un’industria competitiva. Avvia un vasto programma di ricostruzione per eliminare le bidonville. Sul piano internazionale si allea con il venezuelano Hugo Chávez e con il siriano Bashar al-Assad per mettere in discussione l’imperialismo occidentale. I tre Paesi diventano improvvisamente il centro di una partita diplomatica internazionale, sostenuta con discrezione dalla Santa Sede.
Nonostante il doloroso ricordo della guerra imposta dall’Iraq, Ahmadinejad sostiene prima la Resistenza irachena contro l’aggressione statunitense – senza fare distinzioni tra sunniti e sciiti – indi la Resistenza siriana agli jihadisti. Entra però in conflitto con gli alleati interni: dapprima per l’impegno a fianco dei sunniti iracheni e dei laici siriani; poi perché valorizza più l’Iran antico che l’Iran dell’età islamica; infine perché tenta di autorizzare la rasatura della barba e di rendere facoltativo il velo islamico: una minaccia diretta al clero e alla Guida della Rivoluzione, ayatollah Ali Khamenei. Quando Ahmadinejad viene rieletto, Khatami e un figlio di Rafsandjani organizzano con la CIA un sollevamento della borghesia di Teheran e di Ispahan. Ma la gente comune accorre in aiuto di Ahmadinejad e la “rivoluzione verde” fallisce.
I nemici esterni accusano Ahmadinejad di essere un dittatore antisemita che vuole cancellare Israele dalle carte geografiche; gli alleati interni lo insultano e si prendono gioco del suo misticismo. In realtà Ahmadinejad denuncia il potere assoluto della Guida e fa persino lo “sciopero” della presidenza.
A marzo 2013 Ali Khamenei manda una delegazione in Oman per discutere in segreto con gli Stati Uniti. Il presidente Barack Obama intende continuare la strategia Rumsfeld/Cebrowski di distruzione delle strutture statali del “Grande Medio-Oriente”, ma non vuole che le truppe americane sprofondino in un pantano, com’è accaduto in Iraq con George Bush. È perciò favorevole alla divisione della comunità mussulmana in sunniti e sciiti. I diplomatici statunitensi dichiarano quindi agli inviati della Guida di essere pronti a consentirgli di organizzare una “mezzaluna sciita” e di rivaleggiare con i sauditi sunniti. Il rappresentante della Guida, Ali Akbar Velayati, intravvede l’occasione di ripristinare l’impero safavide. All’insaputa di alcuni membri della delegazione, assume l’impegno di eliminare gli uomini di Ahmadinejad e di favorire lo sceicco Hassan Rohani, che fu il primo contatto d’Israele e degli USA nell’affare Iran-Contras.
In concreto, il Consiglio dei Guardiani della Costituzione dichiara il candidato di Ahmadinejad, Esfandiar Rahim Mashei, «cattivo mussulmano» e gl’impedisce di presentarsi alle elezioni presidenziali. La Guida lascia competere più candidati, che si spartiscono i voti dei rivoluzionari; i filo-occidentali presentano invece soltanto Rohani. Quest’ultimo viene di conseguenza eletto e nomina ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, che ha vissuto in gran parte negli Stati Uniti.
La nuova squadra governativa negozia pubblicamente con i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, nonché con la Germania, la fine della questione del nucleare iraniano. Lo scià aveva iniziato un programma militare di ricerca atomica che, durante la guerra imposta dall’Iraq, l’Iran aveva dapprima continuato e infine abbandonato, dopo che l’imam Khomeini si era dichiarato contrario alle armi di distruzione di massa. Ahamadinejad aveva ripreso parti del programma a scopi civili. Israele aveva però ammorbato la stampa internazionale, sostenendo che l’Iran ricercava un mezzo per continuare la shoah, falsificando addirittura i discorsi del presidente Ahmadinejad. Le grandi potenze sanno che Israele sostiene il falso, sicché a Ginevra si perviene rapidamente a un accordo, che però non è firmato. Per un anno Mohammad Javad Zarif e il segretario di Stato John Kerry negoziano segretamente la divisione del Grande Medio-Oriente. Ed è soltanto nel 2015, dopo la firma di un protocollo segreto, che gli altri negoziatori sono invitati a formalizzare a Losanna l’accordo preliminare, che sarà firmato a Vienna. I contrasti tra Teheran e Washington si appianano. Le sanzioni sono progressivamente rimosse, i prigionieri di entrambe le parti sono liberati, un primo versamento di 1,3 miliardi di dollari in contanti è con discrezione inviato in Iran per via aerea.
Tuttavia, mentre le famiglie dell’équipe di Rohani conducono vita fastosa, il governo non fa molto per il popolo, che soffre sempre di più la crisi economica. Certamente le sanzioni economiche occidentali hanno ostacolato lo sviluppo del Paese, ma questo non basta a spiegare la situazione: esperto in commercio internazionale, l’Iran ha creato attorno a Dubai un vasto sistema d’intermediari per mascherare la provenienza e la destinazione dei suoi prodotti. È impossibile per gli USA controllare i confini dell’Iran con otto Paesi nonché le sue frontiere marittime.
Nel 2017 il Consiglio dei Guardiani della Costituzione impedisce all’uomo di Ahmadinejad, Hamid Bagaie, di candidarsi alle elezioni presidenziali, dichiarandolo «cattivo mussulmano». Lo sceicco Rohani viene eletto per un secondo mandato, ma l’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad rivela le malversazioni del presidente e della Guida. Si moltiplicano le manifestazioni sia contro il presidente sia contro la Guida. Le autorità mettono per breve tempo Ahmadinejad agli arresti domiciliari e arrestano tutto il suo entourage. Esfandiar Rahim Mashei, suo candidato alle elezioni del 2013, è condannato a sei anni e mezzo di prigione per «complotto contro la Repubblica Islamica», dopo un processo di cui non si conosce nulla, nemmeno i capi d’accusa.
Il governo pubblica allora un documento ove propone una federazione sciita che includa Libano, Siria, Iraq, Iran e Azerbaijan, sotto l’autorità della Guida della Rivoluzione, ayatollah Ali Khamenei. Si tratta in sostanza del ripristino dell’impero safavide. In Siria, i Guardiani della Rivoluzione non difendono più il Paese ma proteggono esclusivamente gli sciiti.
In pochi anni l’Iran antimperialista si è trasformato in una nuova potenza imperialista. I suoi stessi alleati sono paralizzati e non sanno come uscire dalla trappola in cui sono caduti.
Azioni e affermazioni dell’Iran non corrispondono affatto: i discorsi sono usati per mascherare la strategia. Gli Occidentali sono a torto persuasi che l’Iran sia violentemente antiamericano. È assolutamente falso: i governi dello scià, di Rafsanjani [1989-1997], di Khatami [1997-2005] e di Rohani sono completamente rivolti verso Washington. La crisi degli ostaggi dell’ambasciata statunitense a Teheran (1979-1981) è un’invenzione: non erano ostaggi, bensì diplomatici arrestati in flagrante delitto di spionaggio. Del resto gli Stati Uniti mai hanno chiesto, in nome della Convenzione di Ginevra, la riparazione dei danni al personale diplomatico. Quanto al campo antimperialista, è per definizione contro l’imperialismo, non contro gli Stati Uniti. Ahmadinejad ha scritto a Donald Trump per incoraggiarlo a fare quella pulizia all’interno dell’amministrazione che aveva promesso durante la campagna elettorale.
Ed è altrettanto vero che l’Iran non ha nulla contro gli ebrei. Certamente c’è un antisemitismo reale in parte della popolazione, ma fu l’imperatore Ciro a liberare gli ebrei dalla cattività babilonese, e da allora l’Iran li ha sempre protetti. Benché s’insultino pubblicamente e piratino i rispettivi sistemi informatici, mai Israele e Iran si sono fatti la guerra. Addirittura oggi sfruttano insieme il gasdotto Ashkelon-Haifa, nel cuore dello Stato ebraico; una realtà la cui menzione nella stampa israeliana è punita con 15 anni di reclusione.
Scombussolato dalla sconfitta di Hillary Clinton, l’Iran spera che Donald Trump venga rapidamente destituito. Lo sceicco Rohani si rifiuta perciò di parlargli. Nel discorso a Riad del 2017 Trump si oppone alla strategia Rumsfeld/Cebrowski, ingiungendo al campo sunnita di cessare il sostegno ai gruppi terroristi; ritira inoltre gli Stati Uniti dall’Accordo di Vienna con la parte sciita. Mentre i sauditi si adattano al nuovo inquilino della Casa Bianca, Rohani e la sua squadra insistono a ignorarlo. L’unico accordo possibile fra Iran, Casa Bianca e Pentagono è di finirla con i Guardiani della Rivoluzione, con lo Hezbollah e ogni forma di contestazione del dominio occidentale, poi di dividere la comunità in due parti, per prevenire il risorgere della rivoluzione.
Alla fine, Donald Trump consolida la propria autorità nella regione con l’assassinio, a poche settimane di distanza, del principale capo militare sunnita, califfo Abu Bakr al-Baghdadi, e del più importante capo sciita, generale Qassem Soleimani.
Lo sceicco Rohani si decide allora a negoziare con Donald Trump. A marzo 2020 in Yemen coordina l’azione degli huti e degli Emirati contro i Sauditi; a maggio accetta che uno degli assassini di Soleimani, Mustafa al-Kadhimi, diventi primo ministro in Iraq e, in giugno, invia i Guardiani della Rivoluzione a combattere in Libia a fianco della NATO, come a suo tempo fece il suo mentore, Rafsanjani, in Bosnia-Erzegovina. Contemporaneamente, accetta la proposta cinese di acquisto del petrolio iraniano al 70% del prezzo di mercato; fatto che gli assicura di nuovo la rendita petrolifera, ma rimette in discussione l’alleanza con l’India. Quest’ultima prevede l’inoltro del commercio indiano verso l’Afghanistan dal porto iraniano di Chabahar, aggirando il Pakistan. Ebbene, la logica storica vorrebbe che Teheran s’integri nel progetto cinese della via della seta – via che nell’Antichità e nel Medioevo fu anche persiana – dunque che si allei con il Pakistan.
La storia dell’Iran contemporaneo si riassume in un oscillamento inevitabile tra due visioni politiche: o la grandezza di un impero fondato sull’eredità del profeta Maometto, o la lotta per la giustizia fondata sull’esempio di vita di Maometto e dei profeti Ali e Hussein. La prima fazione è designata dalla stampa occidentale come quella dei “moderati” (sic), la seconda come quella dei “conservatori” (re-sic).
Ipotesi
Il seguito di quest’articolo è da prendere con prudenza perché si tratta di un’ipotesi, che tuttavia merita una riflessione.
Corre l’obbligo di costatare che la morte del generale Qassem Soleimani, comandante delle Forze Speciali dei Guardiani della Rivoluzione, è stata una benedizione per Hassan Rohani; e che non soltanto non c’è stata risposta proporzionata, ma che uno degli assassini è diventato primo ministro in Iraq, con l’appoggio dello sceicco Rohani. Chiamando un illustre sconosciuto a succedere a Soleimani, il potere iraniano ha neutralizzato da sé il corpo dei Guardiani della Rivoluzione. Logica imporrebbe che la prossima personalità da eliminare dallo scenario sia il segretario dello Hezbollah libanese, Hassan Nasrallah.
Non è tuttavia quanto accaduto a Beirut: è un deposito di scaricamento dello Hezbollah a essere colpito da una nuova arma e a esplodere. L’operazione ha fatto oltre 150 morti e 5.000 feriti. Solo alcune voci israeliane, come il deputato Moshe Feiglin, e iraniane l’indomani hanno affermato che non tutto il male viene per nuocere. Secondo la stampa ufficiale di Teheran, la distruzione del porto di Beirut rafforza l’attività della via terrestre Teheran-Bagdad-Damasco-Beirut, dunque il progetto di federazione sciita.
Il 6 agosto il presidente francese Emmanuel Macron si è recato al porto di Beirut. Secondo gl’interlocutori ha concesso ai dirigenti libanesi tre settimane per applicare la seconda parte della risoluzione 1551, ossia disarmare la Resistenza. Il 7 agosto Hassan Nasrallah è apparso su al-Manar turbato, a disagio, persino demoralizzato. Per quattro volte ha smentito di essere in qualche modo implicato in quel che è successo al porto di Beirut.
Ma la macchina è in moto. La prima parte della risoluzione 1551 prevedeva l’esclusione della forza di pace siriana, che mise fine alla guerra civile libanese. Richiese l’assassinio nel 2005 del primo ministro libanese Rafic Hariri, nonché la “Rivoluzione del Cedro”. La seconda parte, il disarmo dello Hezbollah, ha richiesto nel 2020 la distruzione di metà Beirut e richiederà una nuova rivoluzione colorata. Tutto questo fa gli interessi dei vecchi complici dell’affare Iran-Contras, Benjamin Netanyahu e Hassan Rohani.
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