Monika Berchvok: Secondo lei la tesi di un attacco a sorpresa il 7 ottobre è poco credibile. Quali incoerenze le fanno pensare a uno scenario simile a quello dell’11 Settembre?

Thierry Meyssan: Il governo di coalizione di Benjamin Netanyahu è stato allertato da un rapporto dell’intelligence militare un anno prima dell’attacco, lo ha riferito il New York Times. Tuttavia non ha reagito. Secondo le rivelazioni di Haaretz, la scorsa estate Netanyahu, durante una riunione del Consiglio dei ministri, ha revocato il ministro della Difesa che lo aveva richiamato all’ordine, salvo poi reintegrarlo in seguito alle pressioni del partito.

Successivamente, sulla scrivania del primo ministro si sono accumulati altri rapporti; tra essi uno dell’intelligence respinto al mittente perché giudicato poco credibile; lo stesso rapporto gli è stato inviato altre due volte, presentato da ufficiali diversi.

A ciò si sono aggiunti: due rapporti della Cia; un’iniziativa di un amico personale di Netanyahu, il direttore del Memri [Middle East Research Institute]; persino una telefonata del ministro dell’intelligence egiziana.

Non solo il primo ministro israeliano non ha fatto nulla, ha addirittura agito in modo da facilitare l’attacco: ha smobilitato gli agenti di confine, in modo che nessuno potesse intervenire immediatamente.

Noti che la mia lettura dei fatti coincide con quella di papa Francesco che, nel messaggio di Natale, per due volte ha definito la guerra a Gaza un’«ingiustificabile follia», parlando poco dopo dell’«odioso attacco del 7 ottobre», con ciò sottintendendo che non pensa che la guerra condotta da Israele sia una risposta a questo attacco. Ha quindi chiesto la cessazione dei combattimenti e la soluzione della questione palestinese.

MB: Ci sarebbe una frattura così rilevante all’interno del potere israeliano? Quale sarebbe lo scopo del clan Netanyahu in questa operazione?

TM: Nei mesi antecedenti l’attacco della Resistenza palestinese, in Israele c’è stato un colpo di Stato. Il Paese non ha Costituzione, solo leggi fondamentali che presiedono a un equilibrio dei poteri attraverso l’attribuzione alla Giustizia della facoltà di neutralizzare le rivalità tra il governo e la Knesset.

Per iniziativa del Law and Liberty Forum, finanziato dallo straussiano statunitense Elliott Abrams, la commissione per le Leggi della Knesset, presieduta da Simtcha Rothman – altresì presidente del Law and Liberty Forum – ha scompaginato le istituzioni israeliane. In estate si sono moltiplicate manifestazioni gigantesche. Ma non è servito a nulla: Netanyahu e la sua équipe hanno modificato le norme sull’approvazioni delle leggi, eliminato la clausola di «ragionevolezza» delle decisioni giudiziarie, rafforzato il potere di nomina del primo ministro, nonché indebolito il ruolo dei consiglieri giuridici dei ministeri. Insomma, la Legge fondamentale per la Dignità umana e la Libertà è stata ridotta a semplice regolamento. Il razzismo è trattato alla stregua di ogni altra opinione. E gli ultraortodossi hanno potuto fare incetta di sovvenzioni e privilegi.

Oggi Israele non è più lo stesso Paese di sei mesi fa.

MB: La società civile israeliana è divisa e sembra essere allo stremo. Crede che il modello sionista sia morto?

TM: Il sionismo è un’ideologia di altri tempi. Era un nazionalismo al servizio dell’impero britannico, cui gli ebrei si sono opposti per secoli, prima che Theodor Hertzl ne facesse l’ideale di alcuni di loro.

MB: La situazione a Gaza sta per volgere in epurazione etnica. Tsahal è in grado di assumere il pieno controllo del territorio e di svuotarlo della sua popolazione?

TM: L’idea di un’epurazione etnica non è nuova. Ha radici nelle posizioni dell’ucraino Vladimir Jabotinsky, cui si ispiravano in Israele Menahem Begin, Yitzhak Shamir, nonché la famiglia Netanyahu; negli Stati Uniti Leo Strauss ed Elliott Abrams. Questo gruppo di suprematisti ebrei sostiene che la Palestina è «una terra senza popolo per un popolo senza terra»: gli autoctoni palestinesi non esistono, devono andarsene o essere massacrati.

Per quanto ne so è l’unica organizzazione al mondo a propugnare pubblicamente il genocidio.

MB: Dal lato palestinese, anche Hamas sembra diviso tra due tendenze antagoniste?

TM: Hamas è la branca palestinese della Confraternita dei Fratelli Mussulmani. Il suo nome è acronimo di Movimento della Resistenza Islamica e coincide con il termine arabo traducibile con “zelo”. L’ideologia di Hamas non vuole la liberazione della Palestina, persegue l’istituzione di un Califfato, il cui motto è: «Dio è l’obiettivo, il Profeta il modello, il Corano la Costituzione: la jihad è la via, la morte per amore di Dio è la più elevata delle aspirazioni». Da quando è stato istituito riceve aiuti dalla famiglia Netanyahu, che vedeva in Hamas un’alternativa al Fatah laico di Yasser Arafat. Il principe di Galles, ora re Carlo III, è stato un protettore della Confraternita. Barack Obama ha introdotto nel Consiglio nazionale per la sicurezza degli Stati Uniti un agente di collegamento della Confraternita. A giugno 2013 un dirigente della Confraternita venne addirittura ricevuto alla Casa Bianca.

Tuttavia, in seguito al fallimento dei Fratelli Mussulmani nella cosiddetta “primavera araba”, una fazione di Hamas ha preso le distanze dalla Confraternita. Quindi Hamas si è diviso in due: l’Hamas storico è guidato da Mahmoud Al-Zahar, Guida della Confraternita a Gaza, cui ubbidiscono Khaled Meshal in Qatar e Yahya Sinwar a Gaza; il ramo di Hamas che si è unito alla Resistenza palestinese è diretto da Khalil Hayya.

I media occidentali trascurano questa divisione, di cui danno conto solo alcuni media arabi. Bashar al-Assad a ottobre 2022 si è riconciliato con Khalil Hayya, ma si è rifiutato di ricevere Khaled Meshal. Secondo il presidente siriano – e io concordo con lui – il primo ministro di Gaza, Ismail Haniyyeh, nel 2012 organizzò l’attacco al campo profughi palestinesi di Yarmuk, in Siria, dove combattenti di Hamas e Al Qaeda entrarono per eliminare i «nemici di Dio». Erano inquadrati da agenti del Mossad israeliano e si diressero a colpo sicuro nei luoghi dove si trovavano i quadri dell’FPLP, che assassinarono. Tra loro anche un mio amico. Il presidente Bashar al-Assad ha pronunciato alcuni giorni fa un discorso contro Hamas storico, nonché a favore dei membri dell’organizzazione che si sono invece uniti alla Resistenza palestinese.

MB: Secondo lei chi rappresenta la vera Resistenza palestinese?

TM: La Resistenza palestinese non è in alcun modo collegata né all’oscurantismo dei Fratelli Mussulmani né all’opportunismo dei miliardari di Hamas. È un movimento di liberazione nazionale contro il colonialismo dei suprematisti ebrei.

MB: Torniamo alla storia della Confraternita dei Fratelli Mussulmani. Questa società segreta sta tentando di rientrare in gioco dopo le disfatte in Siria ed Egitto?

TM: La Confraternita fu fondata nel 1928 in Egitto da Hasan al-Banna. Ho dedicato parte del mio ultimo libro alla sua storia a livello internazionale. Tuttavia non sono riuscito a mettere completamente in luce gli appoggi di cui ha beneficiato inizialmente. In ogni caso, dopo la seconda guerra mondiale è diventata strumento dell’MI6 britannico e in seguito della Cia statunitense. Si è dotata di un «apparato segreto», specializzatosi negli assassini politici in Egitto. Un suo membro, il franco-massone egiziano Sayyid Qut, fu l’ideologo della jihad. L’organizzazione della Confraternita nacque sul modello della Grande Loggia Unita d’Inghilterra. La Confraternita si estese in Pakistan grazie al genero di Al-Banna, Saïd Ramadan, padre di Tariq Ramadan, e al filosofo Sayyid Abul Ala Maududi.

Successivamente Ramadan lavorò a Monaco per Radio Free Europe, a fianco dell’ucraino Stepan Bandera, grande massacratore di ebrei.

La Confraternita iniziò la sua attività militare negli anni Sessanta, con la guerra dello Yemen del Nord, battendosi contro i nazionalisti arabi di Gamal Abdel Nasser. Ma fu con Zbigniew Brzezinski che divenne protagonista indispensabile della strategia statunitense in Afghanistan. Con il generale Zia-ul-Haq, Brzezinski issò al potere in Pakistan la dittatura della Fratellanza; in Afghanistan invece sguinzagliò contro i sovietici i combattenti del miliardario saudita, il Fratello Osama Bin Laden.

All’epoca l’Arabia Saudita usava la Lega islamica mondiale per armare la Confraternita con un finanziamento maggior di quello destinato alle proprie forze armate.

La Confraternita ha tentato invano di prendere il potere in diversi Stati, in particolare in Siria [1982], con l’operazione della città di Hama. Si è intromessa nella guerra di Bosnia Erzegovina, dove istituì la Legione araba. Osama Bin Laden divenne consigliere militare del presidente Alija Izetbegovic, del quale lo straussiano statunitense Richard Perle divenne consigliere diplomatico e il francese Bernard-Henri Levy consigliere per le comunicazioni.

Ma i capolavori della Confraternita sono stati Al Qaeda e Daesh. Queste organizzazioni jihadiste, sovrapponibili in tutto all’Hamas storico, sono state utilizzate dalla CIA e dal Pentagono –principalmente in Algeria, Iraq, Libia, Siria, Egitto e Tunisia – per annientare la resistenza dei Paesi arabi.

La Francia, che durante la guerra fredda aveva offerto asilo ai dirigenti di Al Qaeda e Daesh, con l’alleanza tra François Mitterrand e Charles Pasqua combatté queste organizzazioni, perché si era resa conto che il Gruppo Islamico Armato (GIA) altro non era che una manovra britannica per estrometterla dal Maghreb.

Ma oggi nessuno considera che la Confraternita altro non è che uno strumento di manipolazione delle masse. La nostra classe dirigente, da Emmanuel Macron a Jean-Luc Mélenchon, si fanno abbindolare prendendo alla lettera i suoi discorsi: la considerano un’organizzazione religiosa, cosa che non è affatto.

MB: Il Qatar ha una posizione a dir poco ambigua. Che ruolo svolge nella cospirazione?

TM: All’inizio il Qatar si è posto come potenza neutrale, interponendo i propri buoni uffici. In molti però si sono detti preoccupati per il fatto che il Paese ospiti il ramo politico di Hamas, di cui alcuni dirigenti sono amici personali dell’emiro, nonché del fatto che Doha retribuisca i funzionari di Hamas a Gaza.

Il Qatar ha risposto che fa tutto ciò su richiesta degli Stati Uniti, come già fece con i Talebani.

In realtà, dopo il rovesciamento a opera di Abdel Fattah al-Sisi – su pressione della popolazione con manifestazioni cui hanno parteciparono 40 milioni di egiziani – della dittatura di Mohamed Morsi, l’Egitto ha informato l’Arabia Saudita che i Fratelli stavano preparando un colpo di Stato contro re Salman. Improvvisamente la Confraternita, vezzeggiata per anni dal Regno, ne è diventata nemico. Il Qatar assunse quindi pubblicamente il ruolo di sponsor dell’islamismo, mentre il principe ereditario saudita MBS intraprendeva l’apertura del Paese.

Quando nel 2017 a Riyad Donald Trump pronunciò il discorso contro il terrorismo, l’Arabia Saudita mise in guardia il Qatar, invitandolo a interrompere immediatamente le relazioni con la Confraternita e le sue milizie, Al Qaeda e Daesh. Fu la crisi del Golfo.

I fatti si sono chiariti in questi ultimi tempi: l’emiro Al-Thani, primo ministro del Qatar, ha inviato la ministra Lolwah Al-Khater a Tel Aviv, dove ha partecipato al consiglio di guerra israeliano, con l’incarico di appianare le difficoltà per trovare un accordo sulla liberazione degli ostaggi. La ministra non ha però capito che nel consiglio sedevano anche oppositori della dittatura di Benjamin Netanyahu, tra cui il generale Benny Gantz; perciò ha agito non da negoziatrice neutrale, bensì da persona autorizzata a prendere decisioni in nome di Hamas. Per questa ragione, al termine della riunione Joshua Zarka, vicedirettore generale degli Affari strategici del ministero degli Esteri, ha dichiarato che Israele «regolerà i conti con il Qatar» dopo che quest’ultimo avrà dismesso la veste di negoziatore.

All’interno del gabinetto di guerra l’opposizione a Netanyahu ha cominciato a chiedersi se il colpo di Stato dell’estate e l’attacco del 7 ottobre non fossero messinscene dell’amministrazione Biden.

MB: Al posto di manovra ci sarebbero quindi gli Stati Uniti. Quale sarebbe la strategia di Biden nella regione?

TM: Joe Biden non è nel pieno dell’efficienza. Negli Stati Uniti c’è persino una trasmissione televisiva settimanale che aggiorna sui problemi di salute e sulle amnesie del presidente. Dietro di lui agisce un piccolo gruppo che ha rilanciato la strategia di George W. Bush e Barack Obama: distruggere tutte le strutture politiche del Medio Oriente allargato, tranne quelle di Israele.

È quanto accade in Libia, Sudan, Gaza e si persegue in Yemen.

L’amministrazione Biden afferma di voler far cessare il massacro a Gaza, ma continua a fornire granate e bombe per consentirne la continuazione. Afferma di voler garantire la libera circolazione nel Mar Rosso, ma forma una coalizione contro Ansar Allah, definito a torto antisemita e sprezzantemente «gli Huthi» (ossia “banda della famiglia al-Huthi). Washington ha recentemente fatto annullare il trattato di pace nello Yemen, firmato sotto gli auspici delle Nazioni Unite. Sta rilanciando una guerra che era di fatto finita.

MB: Rispetto a questo caos, quale è il bilancio dell’operato di Donald Trump nella geopolitica del Medio Oriente? Il suo ritorno potrebbe aprire una nuova via per la soluzione del conflitto?

TM: Nel panorama politico Donald Trump è un UFO politico. Si ispira al presidente Andrew Jackson (1829-1837) e non si richiama in alcun modo alle ideologie Democratica e Repubblicana. Appena insediato alla Casa Bianca, la sua prima decisione fu di sopprimere il seggio del direttore della CIA nel Consiglio nazionale di Sicurezza. Un provvedimento che causò i suoi primi guai e le dimissioni forzate del generale Mike Flinn.

Donald Trump voleva risolvere i problemi internazionali attraverso il commercio, non con le armi. Possiamo giudicarla una strada illusoria, ma dobbiamo prendere atto che è stato l’unico presidente statunitense a non aver scatenato una guerra. Ha bruscamente interrotto l’uso da parte di Washington di emissari terroristi, soprattutto Al Qaeda e Daesh. Ha messo in discussione il ruolo della Nato: un’alleanza militare che mira, secondo le parole del suo segretario generale, a «mantenere gli americani all’interno, i russi all’esterno e i tedeschi sotto tutela».

Se fosse al potere aiuterebbe la maggioranza dei cittadini israeliani a sbarazzarsi dei “sionisti revisionisti”, ossia del gruppo di Benjamin Netanyahu; proseguirebbe nell’attuazione degli Accordi di Abramo e farebbe cessare il sostegno occidentale alla Confraternita dei Fratelli Mussulmani; aiuterebbe la maggioranza degli ucraini a sbarazzarsi di Volodymyr Zelensky e si riappacificherebbe con la Russia, e così via.

Ma Donald Trump non è ancora stato eletto e il gruppo al potere tenta di costringerlo a rinunciare al suo programma per accedere alla Casa Bianca.

MB: Ma l’Occidente rappresentato dall’asse americano-sionista è condannato a morire?

TM: Lei definisce americano-sionista il gruppo attualmente alla guida dell’Occidente politico. È un modo di vedere. Io invece credo che non sia legato a uno Stato. Si dà il caso che queste persone siano al potere negli Stati Uniti e in Israele, ma potrebbero essere al potere altrove. Si dà il caso che facciano riferimento al nazionalismo ebraico, ma non sono nazionalisti, sono suprematisti. Non accettano l’uguaglianza fra gli uomini e i massacri di massa non sono un ostacolo: secondo loro “non si può fare la frittata senza rompere le uova”.

Fu questa forma mentis a provocare la seconda guerra mondiale, con i mostruosi massacri di civili che ha comportato.

Oggi molti dirigenti mondiali si rendono conto che queste persone non sono diverse dai nazisti e sono portatrici dei medesimi orrori. Il Terzo Mondo è entrato nell’età adulta e siede alle Nazioni Unite. Non può più tollerare il potere che si arrogano queste persone. La Russia aspira a ripristinare il Diritto internazionale creato dallo zar Nicola II insieme al premio Nobel francese Léon Bourgeois durante la Conferenza dell’Aia del 1899. La Cina aspira alla Giustizia e non tollererà più “trattati ineguali”.

Mi sembra che questo sistema di governo sia già morto. Alle Nazioni Unite la risoluzione annuale che chiede la fine del blocco di Cuba è stata adottata da 197 Stati contro 2 (Stati Uniti e Israele). La risoluzione per un cessato-il-fuoco immediato e duraturo a Gaza è stata adottata da 153 Stati, un numero certo inferiore, ma la posta in gioco è molto più importante. In ogni caso è evidente che una maggioranza di Stati sta prendendo le distanze dalla politica di queste persone. Quando la diga cederà – e il momento è vicino – l’Occidente politico crollerà. Dobbiamo assolutamente abbandonare questa zattera prima che affondi.