Dopo tre quattro di guerra a Gaza contro il popolo palestinese e la corrente di Hamas appartenente alla Resistenza palestinese – mai contro la corrente che ubbidisce agli ordini della Confraternita dei Fratelli Mussulmani – i diversi protagonisti hanno finalmente mostrato le loro posizioni.

Facendo credere ai propri connazionali di combattere Hamas in generale, la coalizione di Benjamin Netanyahu sta in realtà impegnandosi nel terrorizzare gli abitanti di Gaza per indurli a fuggire. Le privazioni, le torture, i massacri non hanno uno scopo di per sé, sono solo mezzi per riuscire ad annettere la Striscia.

Ansar Allah, il potente partito politico yemenita, ha iniziato ad attaccare nel Mar Rosso le navi israeliane, o che fanno scalo in Israele, per ottenere la fine del massacro a Gaza. Poi ha esteso gli attacchi alle navi collegate a Stati che appoggiano il massacro. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite ha rammentato che il Diritto internazionale vieta di attaccare navi civili, ma nel contempo ha riconosciuto che il problema non potrà essere risolto finché non cesserà il massacro.

Gli Stati Uniti si oppongono al massacro dei civili palestinesi, ma al tempo stesso si mostrano solidali con gli ebrei di Israele nella loro cieca vendetta. Washington, pur continuando a fornire alle FDI granate, esorta Tel Aviv a lasciare entrare a Gaza gli aiuti umanitari. Sulla stessa linea politica ha affrontato il problema creato dalla resistenza degli yemeniti, allestendo l’operazione Prosperity Guardian – cui hanno associato gli accoliti occidentali – in dispregio dell’autorità del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, che non ha mai autorizzato un intervento militare in Yemen. Ma lo stato-maggiore francese, dopo appena due giorni, si è ritirato dall’alleanza per ragioni di coscienza che gli impediscono di coprire il massacro di Gaza. Per ora i bombardamenti degli Occidentali non sono riusciti a colpire i centri militari di Ansar Allah.

L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, reduci da lunga guerra contro lo Yemen, non si sono associati all’operazione Prosperity Guardian. Hanno invece firmato un accordo di pace con Ansar Allah. Tutti si sono riconosciuti nella posizione della Lega araba formulata nel 2002: riconoscimento e normalizzazione dei rapporti con Israele solo dopo l’istituzione di uno Stato palestinese.

L’Egitto, che per effetto domino ha perso il 45% delle entrate del Canale di Suez, non ha reagito mettendosi contro Ansar Allah. Anzi, il Cairo ha preso contatti con il movimento e ha pubblicamente apprezzato i suoi sforzi a favore del popolo palestinese; ha solo invitato gli interlocutori yemeniti a non bloccare completamente il Mar Rosso. Le navi cinesi e russe circolano liberamente e Ansar Allah ha annunciato che avrebbe ridotto i bersagli.

L’Iran, dopo aver esortato le componenti dell’Asse della Resistenza a non inasprire la situazione, ha improvvisamente abbandonato la cautela. Teheran ha bombardato siti collegati a Israele o agli Stati Uniti in tre Stati: in Siria, occupata illegalmente dagli Stati Uniti; in Iraq, dove gli statunitensi sono presenti legalmente ma vi svolgono attività non altrettanto legali; infine in Pakistan, dove Washington appoggia un movimento separatista del Belucistan.

La Casa Bianca ha risposto che gli attacchi iraniani non resteranno impuniti, ma non ha fatto nulla nell’immediato. Se la risposta fosse prudente, tutti ne trarrebbero la conclusione che Washington è solo una “tigre di carta”; se fosse forte rischierebbe di aprire la terza guerra mondiale.

La Siria ha applaudito.
L’Iraq ha protestato, affermando sommessamente che nella regione autonoma del Kurdistan non c’è mai stata una base del Mossad. Poi ha chiesto alle forze occidentali di ritirarsi dal Paese.
Il Pakistan, dove Washington sperava che il nuovo governo si sarebbe tenuto pronto a entrare in guerra contro l’Iran, sotto l’influenza delle forze armate si è invece unita a Teheran nella lotta contro i separatisti filo-Usa.

In questo contesto si colloca l’ordinanza provvisoria della Corte internazionale di giustizia (CIJ), emessa in seguito alla denuncia del Sudafrica contro Israele, accusato di permettere, con la responsabilità di alcuni suoi dirigenti, il perpetrarsi di un genocidio. La Corte, presieduta da un’ex funzionaria del dipartimento di Stato Usa, ha emesso, con la schiacciante maggioranza di 15 giudici contro 2, un’ordinanza che corrisponde esattamente alla posizione degli Stati Uniti: ha riconosciuto la fondatezza del sospetto di genocidio e ordinato a Israele di consentire l’ingresso in Gaza del sostegno umanitario, ma si è ben guardata dallo spingersi oltre: non si è pronunciata sulle richieste di riparazione per le vittime né sulla condanna da parte di Israele dei colpevoli di genocidio. Ma, soprattutto, non ha detto che «lo Stato d’Israele deve sospendere immediatamente le operazioni militari all’interno e contro Gaza».

Fingendo di accettare di conformarsi all’ordinanza della CIJ, Israele ha liberato il passaggio di Rafah e annunciato misure per favorire il transito del sostegno umanitario internazionale. Ma contemporaneamente ha accusato l’Agenzia delle Nazioni unite preposta alla distribuzione degli aiuti umanitari (UNRWA) di essere emanazione dei «terroristi». Ha inviato a Washington prove della partecipazione di 12 dipendenti dell’Agenzia all’operazione del 7 ottobre. Senza perdere tempo gli Stati Uniti hanno sospeso i finanziamenti all’UNRWA e convinto 12 Stati a fare altrettanto. Improvvisamente deprivata di mezzi, l’UNRWA non ha più la possibilità di mandare aiuti a Gaza e di distribuirli.

Washington, che finora aveva sempre auspicato l’assistenza umanitaria ai civili di Gaza, ha irrigidito la propria posizione, partecipando alla distruzione dell’agenzia delle Nazioni unite preposta agli aiuti. Non ha tuttavia abbandonato il sogno della «soluzione a due Stati». Avviandosi verso la dissoluzione dell’UNRWA, gli Occidentali priveranno gli apolidi palestinesi dei passaporti, che solo le Nazioni unite possono rilasciare, impedendo, di fatto, anche l’esilio “volontario” a questa popolazione bombardata e affamata che l’Unione europea già si apprestava ad accogliere.

Imbaldanzita dal sostegno statunitense, la coalizione di Benjamin Netanyahu si è palesata in occasione di un evento a carattere festaiolo, organizzato da radio Kol Barama al centro internazionale dei congressi di Gerusalemme, intitolato «Conferenza per la vittoria d’Israele – le colonie portano sicurezza: ritornare nella Striscia di Gaza e nel nord della Samaria». Gli oratori, tra i quali Itamar Ben-Gvir, ministro della sicurezza nazionale e presidente del partito Forza ebraica (Otzma Yehudit), hanno assicurato che mai ci sarà pace con gli arabi e che soltanto la colonizzazione di tutta la Palestina può garantire la sicurezza degli ebrei. Benjamin Netanyahu, che partecipava all’evento, ha approvato.

Questi propositi bellicosi hanno scioccato l’opposizione alla coalizione di Netanyahu, sia quella che non è entrata nel governo di guerra (come Yair Lapid) sia quella che vi siede (come Yaakov Margi o il generale Benny Ganz). Ma, soprattutto, hanno esasperato Washington, che ha reagito allo schiaffo in due modi. Innanzitutto ha invitato i propri accoliti a non ricevere i suprematisti ebrei (per esempio Amichai Chikli, ministro della Diaspora, atteso a Berlino), poi ha decretato sanzioni contro alcuni di loro. Sono misure più importanti di quanto sembri; infatti vietano immediatamente ogni raccolta di fondi e ogni trasferimento bancario. Dovrebbero rapidamente indebolire i suprematisti ebrei e, di conseguenza, favorire gli altri.

In un primo momento è sembrato che Washington stesse valutando l’opportunità di inserire i ministri Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich nella lista delle persone sanzionate, ma poi vi ha rinunciato. Smotrich si è accontentato di ribattere che l’accusa di Joe Biden ai coloni di Cisgiordania di essere violenti è «una menzogna antisemita, diffusa tra i nemici di Israele».

Alla fine il Pentagono ha pretestato un attacco contro un avamposto militare in Giordania, che ha causato la morte di tre soldati statunitensi, per bombardare civili e combattenti alleati dell’Iran in 85 siti in Siria e Iraq. La Siria ha denunciato 23 morti e dichiarato di prepararsi a respingere l’occupante statunitense; l’Iraq, che tuttora ospita 1.500 soldati statunitensi, ha invece denunciato una violazione della propria sovranità. Uccidere miliziani è un modo per Washington di reagire senza attaccare l’Iran.

Traduzione
Rachele Marmetti